Sfoglia 3 libri di cucina perché la fame non sempre è di cibo
Il cibo salva, il cibo distrugge. E i food writer (spesso) mentono.
«[…] it can’t be an eating disorder, because you are her mother, and she is your baby, and you are a body-positive, cheese-sandwich-eating feminist who walks around the house naked saying ‘Look at my lovely wobbly tum-tum’ and telling your daughters that they are brilliant and strong and beautiful, and so how could your baby have an eating disorder?»
~ Caitlin Moran, More Than a Woman
«Perché sto cambiando così? Perché tutto in me diventa appuntito? Che cosa intendo trafiggere?»
~ Han Kang, La vegetariana
Fateci caso, in quasi tutti i libri di cucina le parole usate per parlare di cibo sono sempre coinvolgenti, accoglienti, a volte sensuali, ma sempre rotonde, spuntate: tutto è dorato, montato, lucido, spumoso, il gusto è pieno, avvolgente, i ricordi si impastano con le sensazioni del momento e il cibo ci regala sempre emozioni positive.
Ma il cibo abita l’intersezione tra il nostro corpo e tutto il resto del mondo, esteriore ed interiore. E se è imperativo che il nostro bisogno di bellezza, in un mondo che ci fa tanta paura, venga saziato, è altrettanto importante osservare il rapporto con il cibo anche quando esso perde il suo carattere zuccheroso, quando assume toni cupi, quando diventa problematico.
Il cibo è potere sul nostro corpo, è l'arma più immediata che abbiamo per combattere quel paralizzante senso di perdita di controllo che prima o poi tutti proviamo, che ognuno gestisce in modo diverso e che, per qualcuno, può diventare desiderio di annullamento, demolizione del proprio essere, rimozione dalla vita fisica. Nel quotidiano sentiamo di non poter fare abbastanza contro guerre, emergenza climatica, iniquità sociale, intolleranza generalizzata, ma sul nostro corpo ancora abbiamo (o dovremmo avere) potere assoluto. Il cibo ci dà questo potere, ci nutre e ci uccide.
La vegetariana, dell’autrice coreana Han Kang, è un romanzo straziante che, contrariamente a quanto suggerisce il titolo, non parla affatto di vegetarismo. Parla di una donna psicologicamente e fisicamente abusata, che non si riconosce nella menzogna della propria esistenza e prova, attraverso la privazione del cibo, ad elevarsi, ad annullarsi nella purezza della natura.
«È il tuo corpo, puoi trattarlo come ti pare. L’unico territorio in cui sei libera di fare come preferisci. Ma anche questo non va come volevi.»
Volendo trovare una colpa al nostro amato food writing, direi che sarebbe quella di dimenticare alcuni aspetti critici del cibo, di proporci troppo spesso una realtà rifugio, più invitante, più calma o più condita di quella reale, o magari di chiederci di prendere posizione in battaglie culinarie polarizzanti, che certo incuriosiscono, ma hanno poco a che fare con la vita vera.
La vita vera è anche quella dei tre milioni di persone in Italia che, secondo il Ministero della Salute, soffrono di disturbi alimentari, in particolare anoressia, bulimia e binge eating. Il 30% di questi ammalati ha meno di 14 anni e le nuove forme di depressione che colpiscono questi ragazzi, oltre ai problemi alimentari, comportano tendenze autodistruttive, autolesionismo, alterazioni dell’umore. Non si può distogliere lo sguardo.
Ho iniziato a riflettere sulla devastazione che qualcosa di apparentemente innocuo come il cibo può portare, a causa di Caitlin Moran, una delle mie autrici umoristiche preferite, e della sua raccolta More than a Woman, che doveva essere una lettura leggera e di evasione e che invece si è trasformata nelle “Olimpiadi del Pianto”, perché affronta con puntualità, profondità e ironia tematiche fondamentali su donne, famiglia, genitorialità e giovani.
Moran racconta con candore la complessa esperienza della figlia dodicenne con la malattia mentale, i disturbi alimentari, l’autolesionismo, racconta una battaglia che non era pronta, né immaginava di dover combattere, contro un demone che, un boccone alla volta, stava divorando la sua bambina.
«We all know she will not eat this. This is Chamberlain’s piece of paper, held by a hungry, sad girl. We all know what she should eat. But neither she, nor we, know how she should»
In questo numero di Sfoglia non c’è niente da imparare, non c’è nessuna predica, nessun senso di colpa, nessun fine particolare se non quello di rimanere ad occhi aperti, leggere e approfondire.
Perché i modi in cui si può parlare di cibo, lo sappiamo ormai, sono infiniti e in questa smisurata offerta editoriale c’è anche chi prova a trattare queste tematiche, senza volerle per forza risolvere, ma con attenzione, con gentilezza, con speranza, ricordandoci che dove c’è il brutto ci può comunque essere un po’ di bello e che come il cibo distrugge, può anche riparare. È la vita vera e questi sono 3 libri di cucina perché la fame non sempre è di cibo.
1. Kitty & Al Tait, Breadsong, Bloomsbury, 2022
«In the space of a few weeks our lives changed completely. It’s very hard to capture what real despair looks like»
Vi avevo già brevemente parlato di questo libro, ma sapevo che ci sarei tornata sopra, perché, per quanto mi riguarda, è l’esempio concreto delle potenzialità di un “banale” libro di cucina, e vorrei che fosse tradotto e reso lettura obbligatoria in tutte le scuole medie d’Italia.
È un libro con due anime, come due sono i suoi autori, un padre e una figlia. È costantemente diviso: la prima metà è un racconto, scritto a due voci, identificate con due caratteri diversi, la seconda è un ricettario di panificazione.
È un libro arancione, con una ragazza allegra, dai capelli rossi, in copertina, i pantaloni a fiori e una piramide di pagnotte in equilibrio sulle braccia, accanto ad un uomo con la barba, vestito di blu, con un’espressione seria, ma simpatica. Un libro gioioso che nasconde una storia fatta di tanto buio.
«Slowly, I started to remove myself. I couldn’t eat. I couldn’t sleep. I wanted to stay at home. I started to have panic attacks, but I didn’t want to tell anyone. Dementors moved into my brain with heavy iron suitcases and the weight of them pinned me down»
Le voci di Al e Kitty si rincorrono nel racconto della loro incredibile avventura: quella di una ragazza di 14 anni, con i capelli rossi, i calzini spaiati e una risata inconfondibile che scopre dentro di sé una tristezza paralizzante. Quella di Al, suo padre, che insieme al resto della famiglia cammina ora su un terreno minato, in cui ogni passo falso può avere conseguenze irreparabili. E quella di Watlington, il più piccolo villaggio del Regno Unito, la cui comunità straordinaria significherà, insieme al pane, la salvezza di Kitty.
È una storia commovente perché è semplicissima, parte da presupposti di assoluta normalità, ma diventa eccezionale. Il pane, scopre Al, ha un effetto calmante su Kitty, sembra interessarla davvero, riesce a riempirle la testa con qualcosa che non sono pensieri negativi. Kitty non riesce più a frequentare la scuola, ad uscire di casa, ma quando panifica, per un attimo, è meno triste, è più concentrata.
«Just for a moment - sometimes when she shaped the dough into a ball, when she lifted the lid off the casserole or when she handed over a still-warm wrapped loaf - I would see her smile a real smile. A smile uncluttered by the thoughts crowding her head»
Cosa può fare un genitore in questo caso, nonostante i dubbi? Cosa può fare una comunità, chiunque venga in contatto con questa ragazza, se non sostenerla? Al rinuncia alla sua carriera di insegnante per stare vicino alla figlia e, incidentalmente, iniziarne una nuova come fornaio, i vicini offrono la disponibilità dei loro forni a Kitty quando quello di casa non è più sufficiente per la produzione, le ordinano sempre più pane, nasce un servizio di consegne, che diventerà un magico armadio pieno di pagnotte, che diventerà un vero laboratorio e un vero negozio: The Orange Bakery.
Kitty è in modalità sopravvivenza, insegue la scintilla che si è accesa con tutta se stessa, cercando di imparare di più, sperimentare di più, vincere ogni giorno una resistenza in più del suo corpo e della sua mente. Entra in contatto con fornai che la ispirano, si fa insegnare nuove tecniche, cerca attrezzature professionali. Al ha soprattutto paura: di aver fatto una scelta sbagliata facendole lasciare la scuola, di essersi lanciato in un’impresa impossibile che potrebbe far tornare la figlia al punto di partenza.
«To see those fears so raw and exposed made me realise how amazingly she was doing to live with them most of the time. They were never gone, but baking could muffle them until they were barely audible»
Il padre si fida della figlia. La figlia si fida del suo istinto e, in qualche modo imperfetto, trovano il loro lieto fine fatto di pasta madre, pagnotte e dolci che riempiono il piccolo negozio, nel piccolo villaggio inglese.
Metà di questo libro parla di salute mentale e di cucina salvifica, l’altra metà raccoglie le ricette della Orange Bakery, come i bun con za’atar, feta e miele, la pagnotta al miso e sesamo tostato, i biscotti con cioccolato, tahini e halva. Abbinamenti coraggiosi, frutto della mente vorace di Kitty.
Lasciatemi finire con una doppia citazione, una di Al e una di Kitty.
«I also know that the part of Kitty’s brain that makes life difficult for her is also probably the same bit that gives her extraordinary drive and determination and a way of seeing life differently»
«AND NOW IT’S TIME for the outside world and I finally feel so ready»
2. Ruby Tandoh, Eat Up, Serpent’s Tail, 2018
«We eat our feelings, lest our feelings eat us»
Non so cosa inalano i concorrenti di The Great British Bake Off sotto quel tendone, ma deve essere qualcosa di veramente potente perché da lì sotto sono usciti, negli ultimi anni, quasi tutti i giovani talenti del food writing britannico.
Una di questi è Ruby Tandoh, finalista della quarta stagione, che finita la caccia alla stella di Star Baker, si è dedicata a scrivere principalmente di cultura e società, è stata pubblicata su Guardian, New Yorker, Vittles ed Elle e ha scritto 3 libri di cucina più questo saggio dedicato agli aspetti problematici del cibo e alla gioia che possiamo sempre ricavarne.
Questo è uno dei libri che ho sottolineato di più. Ogni tanto lo prendo per rileggere qualche passaggio, e ogni volta sottolineo qualcosa di nuovo, perché la scrittura di Ruby Tandoh è davvero appuntita, non si vergogna delle proprie opinioni, trova sempre il punto di vista perfetto per trattare argomenti complicati. Affronta il ruolo delle donne in cucina, la grassofobia, la salute mentale, il culto del wellness e le diete, cercando sempre di riportare il cibo ad una dimensione che sia veramente piacevole.
«The trouble with food is, no matter how much we wish it could sit tight in the realm of mindless escapism, it will always contain these muddled, moral multitudes»
Il saggio è intervallato da alcune ricette, semplicemente raccontate, senza fotografie, che in qualche modo corroborano le riflessioni fatte nel capitolo che le precede. Riflessioni anche controverse, che osservano ogni aspetto della vita attraverso il cibo, senza mai essere ridondanti o scontate.
Tandoh non ha paura di parlare di altri autori, di alzare il velo sui problemi di grassofobia e misoginia che arredano tutte le cucine, quelle stellate, quelle televisive e spesso quelle casalinghe. Ha a cuore il mondo del food writing, di cui è orgogliosamente parte, ma che ritiene colpevole di usare un linguaggio poco rispettoso di chi soffre di disturbi alimentari, di cedere ai ricatti dell’industria delle diete, di proporre uno stile di vita minimalista che funziona solo in contesti di grande privilegio.
Il tono non è giudicante e non toglie validità al cibo in nessuna forma, neanche quella più demonizzata dai nostri sensi di colpa. La stagionalità del cibo per lei è anche quella dei prodotti confezionati del supermercato, che compaiono solo in un certo periodo dell’anno, il comfort food è anche il menù del fast food, e ogni cibo, ogni corpo, merita rispetto, merita di essere trattato come la cosa più preziosa al mondo.
«Eating well means eating with compassion for yourself - for the bad and the good inside you, and for all of the lumps, bumps, beauty and ugliness on the outside»
Nonostante il chiaro intento critico, Tandoh non cerca mai la polarizzazione delle opinioni, si esprime in modo diretto, ma sempre rispettoso, si rende conto anche delle contraddizioni che la riguardano in prima persona. L’essere una ragazza magra le permette di dire “seguite il vostro appetito”, di parlare di intuitive eating e cibo spazzatura in un modo che non sarebbe possibile per una donna sovrappeso. L’esperienza con la depressione e i disturbi alimentari le fa dire, con cognizione di causa, quanto sia importante perdonarsi, perdonare il proprio corpo, la propria fame.
Rifugge da quel senso di rettitudine morale, dal desiderio di insegnare qualcosa dall’alto di una supposta integrità che appartiene a chi, come lei, scrive di cibo per vivere, prova a demistificare alcuni dogmi della cucina lasciando che, alla fine, nel piatto rimangano davvero gli aspetti più belli e puri del mangiare.
«Like a baby, you press decisions to your lips and take a bite, and the shape of the situation condenses in your mouth. You are a human animal, feeling your way through all the goodness and badness of the world with a hungry belly»
È un peccato che neanche questo libro sia stato tradotto in italiano. Credo che questi ragionamenti interesserebbero moltissime persone, perché sono radicati nella nostra vita quotidiana e raccolgono spunti da tanti ambiti culturali che conosciamo e ci mostrano la cultura del cibo per quello che veramente è: cultura.
3. Nigella Lawson, Cook, Eat, Repeat, Chatto & Windus, 2020
«Cooking is not something you do, and then it’s finished with. It is a thread woven through our lives, encompassing memory, desire and sustenance, both physical and emotional»
Ah, Nigella!
Posso dirlo? A Nigella non frega un “beneamato” di niente. Questo è il suo dodicesimo libro, da cui è stata tratta l’ennesima trasmissione televisiva, Nigella è una dea, lei fa come le pare.
Uno dei primi ricordi che ho di lei appartiene ad una trasmissione televisiva, vista forse ai tempi di Tele+, in cui al termine di ogni episodio Nigella, che soffre veramente di insonnia, si alzava in piena notte, andava nella cucina fiocamente illuminata e si preparava uno snack, a volte con avanzi, a volte cucinandolo, raccontando il procedimento con quella sua voce inconfondibile, profonda e cremosa, facendoci percepire l’illiceità e la goduria di questo atto sovversivo.
In un episodio in particolare si alzava dal letto, in vestaglia di seta nera, apriva il frigo, raccoglieva alcuni ingredienti e si metteva a preparare gli “Sluts spaghetti” (spaghetti alla puttanesca) poi sollevava la padella dai due manici laterali, spegneva le luci con il fianco, e tornava a letto a mangiarsi la sua pasta. Questo succedeva probabilmente una ventina di anni fa, pensate oggi cosa potrebbe trattenere Nigella dal parlare, scrivere o cucinare quello che le va.
Niente, appunto. Ed ecco questo libro: un insieme di saggi, riflessioni, consigli culinari e ricette, senza un ordine particolare, un tema specifico. Il sottotitolo è Ingredients, recipes and stories e di questo si tratta, di Nigella Lawson che si versa un bicchiere di vino e inizia a raccontarti i suoi ingredienti preferiti, come le piace cucinarli e le riflessioni che le scatenano.
«I have as little time for purists who disdain the lowly tastes of others as I do for puritans who shudders at our bodily appetites»
Nigella rifugge il concetto di guilty pleasure, il piacere proibito, nel cibo, perché vuole scardinare il senso di colpa da questo ambito: nessuno dovrebbe sentirsi in colpa per il piacere che gli deriva dal cibo. Per questo cucina tutto: carne di ogni tipo, verdure sontuose affogate nella besciamella, usa le spezie, il piccante, prepara dolci e cocktail, e ci descrive i modi in cui introdurre variazioni, ci fa sentire sulla punta della lingua il piacere lussurioso di cucinare senza pensare ad altro se non alla bontà del piatto.
Non è favorevole neanche all’idea di comfort eating, che secondo lei indica una ricerca di cibo per obliterare la mente, l’uso del cibo come narcotico, come un anestetico per annullare altri pensieri, e non come quello che dovrebbe rappresentare: una celebrazione della vita.
«It is not, so resolutely not, for fatphobes but, for those who like the feel of the divinely mucilaginous melted marrow coating their lips stickily as they eat, it is a rich and rare treat»
C’è un intero capitolo dedicato al cibo marrone, agli stufati, alle cipolle appassite in padella anche un giorno prima per renderle ancora più aromatiche, al ragù di ossobuco, alla gioia del palato come unico obiettivo possibile.
Si parla della cucina come performance, di quando cucinare per gli altri diventa desiderio di approvazione e può, quindi, risolversi in una fonte di stress, sconforto e vergogna. Si parla di tutti quei sentimenti contrastanti che ci agitano quando c’è di mezzo il cibo e che ogni tanto andrebbero trattati come fa Nigella, con una scrollata di spalle e una scarpetta nell’olio.
Questo libro è energico, caotico: alcune ricette sono inserite all’interno dei saggi, come se l’autrice non potesse proprio aspettare a raccontarci qualche sconvolgente scoperta culinaria, altre hanno introduzioni lunghissime e spiegazioni corte, ci sono poche foto, nessuna doppia pagina, è, come definito dall’autrice stessa, il suo “flusso di coscienza culinario”.
Ma è anche un libro piacevole da leggere perché Nigella, non dimentichiamolo, sa scrivere. La sua lingua è curata, niente è improvvisato, e il libro si apre con una lunga riflessione su “Cos’è una ricetta?” che ci illumina sulla ricchezza e sulla complessità del linguaggio della cucina.
«There is so much around us that we cannot control, but food gives shape to our pleasures and offers both immersion and escape. We focus on food, not just out of appetite, but because it satisfies our need, our greed for connection»
La gioia di cui parla Nigella, il piacere assoluto che predica, sono chiaramente figli di un enorme privilegio. Solo Nigella può permettersi di essere Nigella, ma noi umani possiamo comunque trarre qualcosa da un approccio così libero, da una creatività così aperta nei confronti del cibo.
Devo scusarmi perché ci ho messo tanto (troppo) a scrivere questa newsletter, ho scritto e cancellato molte frasi, ho pensato più volte di cambiare argomento, ma non riuscivo a togliermi dalla testa quello che avevo letto, l’unicità di questi tre libri, la necessità di affrontare certi argomenti.
Il mio rapporto col cibo non è esattamente dei più sani, ci penso troppo, costantemente, l’ossessione è troppo grande, ma sono grata di avere questo spazio per potermi confrontare con chi ci pensa e riflette quanto me.
Per fortuna che non hai cambiato idea ❤️ argomento che mi interessa tantissimo. Leggendoti mi è tornato in mente Fame di Roxane Gay
s-t-u-p-e-n-d-a. E te lo dice una donna che ha scelto di occuparsi di cibo per lavoro e che ha sofferto di disturbi alimentari da ragazza. Ti consiglio anche (se non li conosci già, come in realtà immagino) i libri di Bee Wilson, The first bite e This is not a diet book.