Sfoglia chiacchiera con Benedetta Jasmine Guetta
autrice, fotografa, food-stylist, co-creatrice del blog Labna
«Sostanzialmente il libro è scaturito dalla mia ansia che tutte queste storie e ricette sarebbero andate perse nel giro di una o due generazioni al massimo»
In una piccola traversa di Viale Marconi, parecchi anni fa, c’era un forno ebraico. Me l’aveva consigliato mia suocera visto che andare ogni volta da Boccione al Ghetto era complicato (chi ha provato a cercare parcheggio in quella porzione di Lungotevere mi capirà sicuramente, come chi abbia mai avuto l’ardire di prendere il 30 a Largo Argentina con una crostata in una mano e un chilo di biscotti nell’altra comprenderà il senso di profondo fallimento derivato da un’impresa del genere).
Questo forno a Marconi era forse meno blasonato dell’altro, ma aveva il necessario per soddisfare il mio desiderio di pasticceria secca ebraica che, a mio parere, non ha rivali: tozzetti, biscotti con pasta di mandorle, azzime dolci, orecchie di Aman e, soprattutto, pizza di Beridde (uno dei miei - tanti - feticci).
Mentre guidavo con la mano destra unta, staccando pezzi di questi “tronchetti della felicità” dalla bustina increspata posata sul sedile del passeggero, mi capitò di pensare che anche se i forni ebraici sembravano estremamente gelosi della ricetta (non vi azzardate mai, MAI, a chiedere una ricetta alle signore di Boccione se non volete rovinare la vostra vacanza a Roma) doveva per forza esserci qualcuno “su Internet” che ne parlava. Ecco come sono finita su Labna: il blog che dal 2009 diffonde ricette di tradizione ebraica e mediorientale, creato da Benedetta Jasmine Guetta e Manuel Kanah.
«Nel 2009 Manuel dava lezioni di cucina, soprattutto nella nostra comunità, io lo aiutavo e volevamo un posto in cui conservare queste ricette in modo che le persone dei corsi potessero ritrovarle: era soprattutto un modo per non avere troppi pezzi di carta e creare un archivio. Man mano che queste ricette si accumulavano ci accorgemmo che quelle della tradizione ebraica, specialmente mediorientale, riscuotevano un grande interesse online. Nessuno parlava di cucina ebraica mediorientale in Italia online».
Il caro Ottolenghi non era ancora famoso, e tantomeno gli altri autori che negli ultimi anni hanno reso più familiare la cucina mediorientale e, probabilmente per questo, le ricette di Benedetta e Manuel vennero percepite come nuove e interessanti dai lettori italiani.
«Era una curiosità culturale e culinaria a cui ci siamo ritrovati a dover rispondere per mancanza di alternative più autorevoli di noi, perché in Italia non ci sono molti ebrei e siamo una comunità molto secolarizzata: un italiano può passare tutta la vita senza incontrare un ebreo, senza sapere che una certa persona che conosce è ebrea. In Italia non abbiamo tante occasioni di confronto con la cultura ebraica».
Per i romani la cucina giudaico-romanesca è una parte essenziale della tradizione culinaria, è spesso integrata nella cucina di casa, ed è diffusa da ristoranti di ottimo livello, tappa obbligata per i turisti. Nel resto dell’Italia non sempre è così, per questo Benedetta ha sentito il bisogno di iniziare un viaggio: per ritrovare la cucina che l’ha formata e quella che ha scelto, per scoprire lo sviluppo e le differenze della tradizione ebraica nelle varie regioni italiane.
Un viaggio culminato nel suo libro, Cooking alla Giudia, pubblicato nel 2022 dalla casa editrice Artisan, di cui abbiamo già parlato in questo numero. Chiacchierando con Benedetta mi sono accorta che non è la prima volta che una giovane autrice mi racconta la sua preoccupazione per quelle tradizioni culinarie piccole, dimenticate, in via di estinzione. Un timore che ci si aspetterebbe solo da gastronomi di una certa età e che, invece, appartiene a chi, studiando e approfondendo, si accorge di quanto stiamo perdendo, di quanto cibo italiano, e quanta storia, evaporerà con il passare degli anni.
La tradizione culinaria ebraica: perché?
Con il blog, senza averlo pianificato, ci siamo ritrovati ad essere “portavoce” della cultura ebraica attraverso la cucina. Il desiderio di approfondire è nato per rispondere alla domanda culturale che ci aveva travolti. Ho girato l’Italia per intervistare donne di tutte le età, in comunità ebraiche grandi e piccole. Al netto di Roma, che ha una comunità vivace, e in parte di Milano, le altre comunità italiane sono piuttosto piccole e in calo demografico. Dal confronto con tutte queste realtà mi è venuta l’ansia! A Venezia, ad esempio, che è forse la mia comunità preferita, ero arrivata per fare i biscotti con delle signore per la Pasqua ebraica: quando le ho incontrate mi sono accorta che l’età media era parecchio alta e che i figli erano lontani o poco interessati alla cucina locale. Mi sono preoccupata, perché quelle signore custodivano storie e ricette con un loro valore culturale che mi sembravano sull’orlo dell’oblio. Da lì è nata l’idea di creare un libro per raccoglierle, un libro in cui dare voce a tutte le comunità, anche quelle piccole. Roma, all’interno della cultura ebraica, la fa da padrone, ma c’è moltissima altra cultura e moltissima altra storia nel resto della penisola che valeva la pena documentare. Quando stavo ultimando le ricette del libro, mi sarebbe molto piaciuto includere quella del prosciutto kasher, che ha una storia interessante, perché a Venezia, o comunque nel Nord Italia, il prosciutto d’oca era un prodotto tipico, ma sono rimaste due persone a saperlo fare, entrambe molto anziane. È un processo laborioso, e ti devi procurare un’oca, però è qualcosa che ha un grande valore culturale, perché spiega come gli ebrei, che non potevano mangiare maiale, avessero adottato l’oca come ingrediente alternativo e la trattassero esattamente come i cristiani trattavano il maiale, utilizzandolo per le stesse pietanze. Quando queste due persone non ci saranno più sarà finito anche il prosciutto d’oca. Ovviamente sopravviveremo anche senza, ma da un punto di vista culturale e antropologico perderemo un piatto di valore.
In America la comunità ebraica è molto più presente. Nell’intrattenimento, tramite la tv, sappiamo molte cose sul modo di mangiare tradizionale. In Italia, invece, non sappiamo molto. Cosa significa essere cresciuta con tradizioni culinarie così forti e importanti in un luogo che ne ha poca consapevolezza?
Prima di tutto c’è un problema demografico. In America ci sono tanti ebrei, con una cultura molto uniforme, principalmente di tradizione dell’Europa dell’Est, i cui genitori, nonni o bisnonni, sono arrivati in America e hanno mantenuto le proprie tradizioni anche culinarie. Una sostanziosa parte del paese ha un’identità ebraica chiaramente definita, che influenza anche il mercato. Se in Italia voglio comprare il cibo kosher per la Pasqua ebraica posso comprare tre tipi di biscotti, in America invece ho interi supermercati, perché ci sono i numeri per giustificare quegli investimenti. Il mio libro è stato pubblicato in America perché qui ci sono tanti ebrei in assoluto e anche tanti ebrei che muovono cultura. In Italia siamo pochi e anche se fossimo tutti impegnati a diffondere la nostra cultura non saremmo comunque abbastanza. Poi c’è un problema di identità. In America sono per lo più ashkenaziti, hanno un background comune, in Italia invece la cultura è mista: ci sono gli ebrei italiani che sono in Italia da generazioni, ci sono quelli di immigrazione più recente, come ad esempio la mia famiglia che viene dalla Libia, altri che vengono dal Libano, dall’Iran, dal Marocco, ed è quindi una cultura meno uniforme. Queste comunità di immigrazione recente hanno avuto meno opportunità culturali rispetto agli ebrei ashkenaziti americani che sono in USA da 2-3 generazioni ed erano già di cultura più elevata venendo dall’Europa. Il divario è abbastanza evidente. Gli ebrei italiani sono meno rappresentati e meno rappresentativi. Mi sono chiesta, pensando ad una traduzione, se il mio libro potrebbe interessare al pubblico italiano e mi sono risposta di no, perché al pubblico italiano le ricette italiane sono già più o meno note e gli aspetti culturali forse non interessano. Per l’Italia ha più senso fare cose di respiro internazionale, spiegare l’Italia agli italiani e cercare di restituire all’identità ebraica italiana una posizione nella cultura italiana è una minuzia, è una nicchia faticosa. Ora sto lavorando al mio prossimo libro che sarà su piatti ebraici più mediorientali, che hanno molto più appeal. Togliendo Roma, in cui la tradizione giudaico-romanesca è molto specifica, nelle altre città italiane, Firenze o Milano, i ristoranti kasher preparano falafel e hummus, perché si preferisce l’aspetto più “esotico”, rispetto al tradizionale italiano, che pure ci sarebbe.
Come italiana cresciuta in Italia ti è mai pesata questa poca consapevolezza degli altri rispetto alle tue tradizioni culinarie?
Non posso parlare per tutti, ma per una vasta maggioranza di ebrei italiani l’ebraismo è più una questione identitaria, più sentimentale che pratica. Gli ebrei praticanti non sono tanti, non saprei darti dei numeri veri, ma, nella mia esperienza, i percepiti sono pochi. L’identità, invece, è molto forte. Io sono cresciuta in una famiglia mediamente religiosa, osservavamo le feste non in modo pedissequo, ma con un forte senso di identità, che cresceva in parallelo con l’identità nazionale. Io mangiavo la pasta come mangiavo i falafel, erano solo due aspetti di quello che ero e in realtà finivo a darli entrambi un po’ per scontati. Vivere lontana mi ha fatto riscoprire l’interesse che gli altri hanno per la mia cultura. Quando abbiamo iniziato a scrivere di cucina ebraica su Labna è stato casuale: quel giorno invece della pasta avevamo preparato un piatto ebraico, ma non pensavamo che la cosa di per sé avrebbe riscosso alcun interesse, perché per noi era solo una parte di quello che eravamo, e la nostra storia si componeva di molte esperienze.
Un ricordo di cucina di quando eri piccola.
A casa mia hanno sempre cucinato le donne, come in molte case, con l’eccezione di mio nonno che la domenica mattina friggeva le sfenz, che sono frittelle di pasta di pane che si rotolano nello zucchero. Quindi ogni domenica mattina c’era una puzza di fritto tremenda, ma era l’unica occasione in cui un uomo entrava in cucina a casa nostra. Mi ricordo di aver sempre voluto cucinare, ma ho dovuto combattere con mia mamma, che è una cuoca eccellente e molto gelosa del suo spazio in cucina. Adesso ho più voce in capitolo, ci sono argomenti su cui riconosce la mia competenza, ad esempio la panificazione, ma non la “sfiderei” mai ai fornelli: tutto quello che so fare io, lei lo fa anche meglio.
Come vivi oggi la cucina italiana visto che per te è già un’unione di due tradizioni?
Quando ho iniziato a scrivere Cooking alla Giudia ho imparato tante cose che non sapevo, per esempio sull’influenza e sui contributi culturali che la cucina ebraica ha portato alla cucina italiana. La cucina italiana per qualche ragione è considerata talmente iconica e intoccabile che è come un dogma. Per moltissime persone c’è solo un modo giusto di fare le cose, quello in cui le faceva nonna, che non può essere neanche argomento di ricerca. Ogni volta che qualcuno si azzarda a vederla in modo diverso è sempre oggetto di grande scandalo e dibattito, cosa che in altri paesi non accade. Quando venne fuori che forse il fish&chips aveva origini ebraiche, gli inglesi non ne soffrirono, mentre in Italia l’argomento cucina è intoccabile, è qualcosa di viscerale. Quando facevo lezioni di cucina in Italia mi capitava di dire che le orecchiette le avevano portate gli ebrei dalla Provenza e si chiamano orecchiette perché si preparano per la festa di Purim, caratterizzata in tutto il mondo ebraico da diversi piatti chiamati “orecchie”. Ma non vuol dire che le orecchiette non sono pugliesi, non è un male, è la cucina che per sua natura è un processo di evoluzione, di arricchimento, questo è il suo pregio, non dovrebbe essere un tabù. Sarebbe meglio essere più consapevoli delle alternative, della storia, delle origini, invece ogni cambiamento, ogni dubbio, ogni sollecitazione diventano un’aggressione.
La comunità ebraica italiana ha detto qualcosa sulle ricette?
Le vendite di libri nella comunità ebraica italiana non sono alte. Alcuni hanno chiesto la traduzione, come l’hanno chiesto anche al di fuori della comunità ebraica, e c’è stato un discreto interesse nelle pubblicazioni ebraiche. Mi aspettavo polemiche, ma non ci sono state, forse solo perché la lingua inglese mi ha protetta. Su Labna ho sempre ricevuto incoraggiamento: se pubblicavo, ad esempio, la ricetta dei latkes, che sono frittelle di patate, qualcuno commentava “perché non provate anche quest’altra ricetta, vi mando quella di mia nonna”. Era uno spazio più costruttivo, il feedback veniva da chi voleva contribuire, più che da chi voleva correggere. Già con Labna volevo saperne di più, ma a parte chiedere a qualche nonna, a qualche bisnonna, o zia di qualcuno che conosco, non c’erano molti libri. Uno è quello che qualunque donna ebrea ha in casa e si chiama La cucina nella tradizione ebraica è un tomo denso, senza foto, con ricette impossibili da seguire, perché molto approssimative. Ora è pubblicato dalla casa editrice Giuntina, ma era stato redatto dall’Associazione delle Donne Ebree, senza un editore. Quando ho pensato di scrivere il mio libro ho anche riflettuto che lo spazio nel mercato c’era, perché questo non è affidabile. Leggevo le ricette e diligentemente provavo a replicarle, ma a parte la vaghezza dei termini, anche il risultato era inutilizzabile, quindi ho imparato molto sul campo. La vera cucina di casa mia, con cui sono cresciuta, è quella tripolina/libica, poi la cucina ebraica italiana l’ho molto voluta e studiata.
Che cos’è il cibo per te?
È la mia principale modalità di espressione dell’affetto. Se ti voglio bene ti cucino delle cose. È anche un modo per mantenere l’identità, e non vale solo per la religione ebraica, ma nel nostro caso è molto rilevante, perché le nostre feste sono inscindibilmente legate al cibo che, di fatto, è un modo di manifestare la fede o la propria aderenza ad una cultura specifica. In questo senso il cibo per me è tradizione, ed è molto intrecciato con la religione. Io non sono molto osservante, non vado molto in sinagoga, ma nelle festività per me è necessario avere il giusto cibo per celebrare quella festa. È anche una grande consolazione, è l’abbraccio che ti dai quando gli altri non te lo danno, è un modo di essere presente a me stessa e di accudirmi.
Quando ti sei trasferita in America hai avuto uno shock da un punto di vista culinario? Ora che vivi lì è cambiato il tuo modo di vedere il cibo?
Quando il mio compagno ed io ci siamo conosciuti vivevo in Germania e il piano era andare a vivere in Israele. Abbiamo vissuto in Israele per un anno e mezzo, poi per una serie di questioni logistiche e pratiche siamo finiti a Los Angeles. Io non ci volevo stare, non era nei miei programmi. Se avessi potuto scegliere una città di lingua inglese dove vivere avrei scelto Londra, come tutti noi anglofili, e anche in America ci sono molte città che mi piacerebbero più di Los Angeles. Ma è stata un’esperienza arricchente in molti modi diversi. Anche rispetto al libro essere fisicamente in America è stato di grande aiuto per la promozione. Conoscevo la cucina ebraica ashkenazita, anche se non è quella della mia tradizione, ma ora ho dovuto impararla meglio, perché, ad esempio, la bambina del mio compagno, che è nata qui, si aspetta quella cucina dell’Europa dell’Est, anche se ci sono dei piatti, come le Matzah ball, francamente indigesti. Ma proprio perché il cibo è così legato all’identità e questa è una parte dell’identità locale, l’ho fatta mia. Ora sulla mia tavola di Pesach c’è l’ebraismo sefardita, quello della mia famiglia, c’è l’italiana che sono, e la cultura ebraica dell’Europa dell’Est che ho assimilato vivendo in America. Qui ho aperto anche il mio bar e non ho voluto farne una cosa solo italiana, anche se la cucina italiana è molto apprezzata, rispettata e desiderata.
Come mai hai scelto di dedicare il locale alla challah?
Quando mi stavo trasferendo avevo conosciuto degli italiani e avevo dato loro una mano nel locale che avevano, che ora è diventato il mio (Café Lovi a Santa Monica, California, n.d.r.). È un locale molto piccolo ed ha una cucina limitata, un po’ spartana. Prima serviva piadine e panini, ma le piadine non sono un piatto che mi appartiene, quindi ho pensato a come reinventare il posto superando questi limiti. Mi è venuta in mente la challah, perché non c’erano molti piatti che mi appartengono che potessi cucinare e vendere in uno spazio così limitato. La challah è un po’ la mia ossessione, credo vada bene con tutto, dal salato alla marmellata. Da sola non so se sarei stata capace di gestire un locale, per fortuna ho uno chef, un ragazzo che lavora con me, che di fatto ha preso la mia idea ed è stato in grado di farla diventare molto più ricca di quello che sarebbe stata ed è venuto fuori un deli un po’ italiano un po’ ebraico. Una delle nostre proposte è la challah con la caponata, per esempio, che piace moltissimo. L’accoglienza in zona è stata buona, non siamo famosi, ma siamo apprezzati e rispettati. Quando ho rilevato l’attività ho comprato tutti i libri che trovavo su “come si apre un ristorante” e in uno di questi libri c’era scritto che se sopravvivi al primo anno da lì in poi è tutto in discesa. Per ora siamo sopravvissuti due anni, mi piace pensare che il peggio sia passato. Ci si immagina i caffè come luoghi carini, in cui esprimere la propria creatività, in realtà più che altro è una fatica, si sottovalutano immensamente tutti gli aspetti fastidiosi che ruotano intorno all’avere un bar. Da quando sono dall’altra parte del bancone ho un rispetto enorme per chi lavora nella ristorazione, dal lavapiatti fino allo chef famoso.
Chi o quali sono le tue più grandi ispirazioni?
Una mia grande ispirazione è il passato. Scavare nelle cose che altri hanno scritto o cucinato. È in qualche modo uno sforzo archeologico. Mi interessa riscoprire la cultura ebraica del passato, che vorrei rivitalizzare. C’è anche il desiderio di dare continuità ad una tradizione gastronomica che a me sembra in pericolo. Gli ebrei sono abbastanza ossessionati da un principio molto semplice: ledor vador, che significa “di generazione in generazione”, perché viviamo sempre con un senso di incertezza sul domani. Per questo credo che cercare di dare una prospettiva sul lungo periodo sia una cosa che mi motiva molto, che mi spinge a ricercare, a studiare.
Cosa c’è nel futuro di Labna?
A me più di tutto piace scrivere di cucina, un tempo sarei stata meno tematica, però ormai, anche per i blog, se non hai un tema, una nicchia, non ti segue nessuno. Il mio interesse è sempre stato cucinare piatti buoni e scriverne, raccontarne la storia, quindi il mio istinto sarebbe continuare a scrivere storie di cucina. In qualche modo ho fatto come un imbuto dei miei interessi, veicolandoli in una direzione precisa, ma la passione è sempre stata quella della cucina in generale. Quando ero Labna, in particolare dal 2009 al 2018, nella vita facevo tutt’altro, mi occupavo di marketing, lavoravo in un’assicurazione, quindi mi ritengo fortunata ad aver avuto ad un certo punto l’opportunità di seguire il mio vero desiderio. Ora sto lavorando alla traduzione di tutto il sito, centinaia di ricette, in inglese, e scrivendo un libro sulla cucina libica. Appena l’inglese è sistemato vorrei tornare ad aggiornare il blog.
Apriamo il cassetto: un sogno piccolo e un sogno grande.
Un sogno piccolo, raggiungibile, è il prossimo libro, che richiederà un po’ di sforzi, più che altro perché, scrivendo cose di nicchia, trovare un editore non sarà facile. Un sogno grande, ma più che un sogno, un desiderio, sarebbe quello di trovare un giorno un posto dove sentirmi a casa. Sono sempre stata sballottata in tanti posti, ho vissuto in tanti posti, ho fatto tante esperienze, ma non mi sono mai sentita davvero radicata. Vorrei mettere radici ad un certo punto. Per ora non sto facendo grandissimi progressi in questa direzione. Mi sento sempre in cammino, mentre tutti ad un certo punto si fermano, costruiscono un nido. Il mio sogno ambizioso sarebbe fermarmi.
La tua “cena immaginaria”: tre invitati, di qualunque ambito o epoca, chi inviteresti e cosa cucineresti per loro.
Sto lavorando a un nuovo libro sulla cucina ebraica della Libia, e devo dire che in questo momento mi farebbe davvero comodo poter evocare attorno alla mia tavola sia la mia nonna che la mia bisnonna paterna. Preparerei loro un bel banchetto con tutte le ricette di famiglia che sto testando per il libro, per assicurarmi che siano all'altezza delle aspettative e fedeli alla tradizione. Chissà quanti segreti e trucchetti potrebbero svelarmi! Il terzo invitato sarebbe mio nonno paterno, perchè ci sono tante storie che avrei voluto farmi raccontare direttamente da lui, come le avventure che ha vissuto quando è stato rinchiuso in un campo di lavoro fascista al confine con l'Egitto o quando è scappato dalla Libia per emigrare in Italia. Mi rendo conto che non sarebbe necessariamente una cena di grande interesse - non ho invitato Giovanna D'Arco o Albert Einstein o Neil Armstrong - ma per me sarebbe un'esperienza impagabile.
Domanda “hot”: challah o sourdough?
Challah senza dubbio. Non sono una grande fan del sourdough, anche perché qui in molti posti è gommoso, umido, molto acido, anche quello di buona qualità: l’hanno spinto a un estremo per cui devi essere un vero purista per apprezzarlo. C’è una sede di Tartine bakery vicino casa mia e quando hanno aperto io ero gasatissima, poi in realtà ci sono più buchi che pane, non mi fa impazzire. Il pane italiano invece mi manca tantissimo e ancora di più la focaccia, e tra challah e focaccia forse non saprei scegliere, perché quelle sono due identità fortissime che mi dilaniano.
3 libri di cucina consigliati da Benedetta:
Claudia Roden, The Book of Jewish Food, Penguin, 1999
Questo è il libro di base della cucina ebraica che raccomando a tutti: se potessi avere un solo libro dedicato all'argomento lo sceglierei senza esitazione. Non è un libro "bello", nel senso che non è illustrato, ma è davvero esaustivo e copre tutto il panorama della cucina ebraica, Europa, Nord Africa, Levante. Il sapere di Claudia Roden è semplicemente enciclopedico, e le ricette sono non solo davvero affidabili, ma si possono eseguire facilmente nonostante manchino le immagini.
Merelyn Frank Chalmers, Natanya Eskin, Lauren Fink, Lisa R. Goldberg, Paula Horwitz, Monday Morning Cooking Club: The Food, The Stories, The Sisterhood, Harper Collins, 2014
Un'esperienza che è molto comune in America e che in Italia io non ho mai avuto è il cooking club, un gruppo di appassionati di cucina che si riunisce per cucinare e/o mangiare insieme scegliendo di volta in volta un tema o un libro da cui ispirarsi. Questo libro è il primo dei 3 volumi pubblicati appunto da un cooking club di signore ebree che si riunisce il lunedì mattina in una sinagoga a Sidney, Australia, e raccoglie diverse ricette ebraiche "di famiglia" provenienti da ogni angolo del mondo, condivise dalle signore che partecipano al cooking club. Alcune delle mie ricette preferite, ad esempio l'indimenticabile, sofficissima chocolate chiffon cake, vengono da questo libro. Il ricavato del libro, tra l'altro, va in beneficenza, che mi sembra un'altra buona ragione extra per regalarselo.
Michael Solomonov, Steven Cook, Zahav: A World of Israeli Cooking, Houghton Mifflin Harcourt, 2021
Meno famoso di Ottolenghi, ma altrettanto interessante e degno di nota, chef Michael Solomonov è uno dei personaggi del mondo della ristorazione in America che ammiro di più. Non l'ho esattamente scoperto io, nel senso che è già pluripremiato e ha vinto un James Beard Award, ma in Italia è meno conosciuto, secondo me ingiustamente. Per chi ama la cucina mediorientale di Ottolenghi, chef Solomonov ha ricette favolose ispirate ai sapori di Israele. Zahav è stato il primo ristorante di questo chef a Philadelphia, ma ormai ne ha una decina - e quelli che ho provato erano tutti eccellenti.
Dopo 5 mesi tornano finalmente le interviste di Sfoglia! Sono contenta di ripartire proprio con Benedetta (che ringrazio per la pazienza straordinaria) perché appartiene a quel gruppo di autrici italiane che mi lasciano sempre a bocca aperta per l’eccellenza del loro lavoro, per il livello di approfondimento e la capacità di creare libri unici, che tengono il passo con i migliori prodotti internazionali. Aspetto con ansia il prossimo!
Mi ricordo di aver sempre voluto cucinare, ma ho dovuto combattere con mia mamma, che è una cuoca eccellente e molto gelosa del suo spazio in cucina. Adesso ho più voce in capitolo, ci sono argomenti su cui riconosce la mia competenza, ad esempio la panificazione, ma non la “sfiderei” mai ai fornelli: tutto quello che so fare io, lei lo fa anche meglio.
la tipicità di questo atteggiamento. Ci potrei scrivere un trattato
Che bello ritrovare Jasmine (quando la conobbi nel mio team di lavoro la chiamavamo così). All’epoca tra il 2009 e il 2010 Labna era appena nato e lei era giovanissima. Mi incuriosì molto il suo lavoro e da romana migrata in Emilia la cucina romana giudaica era la mia identità. Una bella persona, brava e appassionata.