Sfoglia chiacchiera con Felicity Cloake
autrice, giornalista, travel writer e firma del Guardian
«Amo il fatto che non c’è niente che non sia connesso al cibo in un modo o nell’altro»
Questa newsletter arriva oggi nelle vostre caselle con un ritardo mostruoso e, mentre finisco di sistemarla seduta al tavolo della cucina, con una pentola che bolle sul fuoco, in un momento di inaspettata solitudine, mi ritrovo a pronunciare dei fermi NO con tono perentorio. E non è perché non sono soddisfatta di come sia venuta (sono anzi emozionantissima e non vedo l’ora che la leggiate) ma perché Whisky, un cucciolo di bassotto di tre mesi e mezzo, ha deciso che la cesta dei panni sporchi è l’unica cuccia degna delle sue nobili terga e devo in continuazione richiamarlo prima che trasformi le lenzuola in un centrino.
Ma questo ritardo, per cui mi scuso profondamente, non poteva cadere nel momento migliore, perché proprio questa mattina, sabato 30 Settembre, in copertina su Feast, il supplemento gastronomico del quotidiano inglese Guardian, c’è un piatto di Felicity Cloake, e non un piatto qualsiasi, uno di cui abbiamo parlato proprio in questa intervista (se non avete modo di leggere Feast molto probabilmente sarà online, sul sito del giornale, la prossima settimana).
Felicity Cloake è autrice di 5 libri di cucina, principalmente tratti dalla rubrica che scrive sul Guardian, incentrata sulla ricerca della ricetta perfetta di un certo piatto, sullo studio e sulla comparazione delle istruzioni di tutti i più importanti autori food, setacciati e filtrati attraverso il suo gusto per ottenere il modo migliore di cucinare qualcosa. È stata nominata e ha vinto premi prestigiosi e i suoi ultimi due libri, One More Croissant for The Road del 2020 e Red Sauce, Brown Sauce del 2022 (di cui ho parlato qui), sono un’incursione nella letteratura di viaggio, compiuta attraverso tour gastronomici su due ruote (è un’appassionata ciclista) in Francia e Gran Bretagna.
È una delle mie autrice preferite: ironica, con un punto di vista unico e a volte irriverente, riesce a rendere vivo ogni luogo, ogni persona che entra nel suo racconto, ma ha anche una conoscenza sconfinata del mondo del cibo, degli autori, dei libri e rende il lettore partecipe di questa sua sapienza, senza mai prendersi troppo sul serio, senza issarsi su un piedistallo, mantenendo sempre il tono di quell’amica entusiasta che è appena tornata da un viaggio pazzesco e vuole raccontarti tutto quello che ha scoperto.
Intervistarla è stata una missione kamikaze: le ho mandato una mail dopo aver partecipato ad una sua masterclass online sul food writing, in cui ci aveva raccontato che le persone che lavorano nel mondo del cibo sono tendenzialmente tutte molto gentili e disponibili e facili da approcciare, e che non bisognava avere timore di contattarle (non me lo sono di certo fatto ripetere). E in effetti mi ha subito risposto, è stata di una gentilezza e di una generosità che mi hanno fanno riflettere e la ringrazierò all’infinito, perché credo non ci sia cosa più bella che scoprire che un autore che amiamo è anche una persona simpatica.
Questa è la versione tradotta della nostra chiacchierata, che invece si è svolta in inglese, se volete leggere la versione originale, la trovate pubblicata QUI sulla pagina Substack di Sfoglia.
La ricetta perfetta: perché?
How to Make the Perfect è una rubrica che scrivo per il Guardian da molto tempo, dal 2011. In realtà all’inizio non aveva nulla a che fare con la ricetta perfetta, ma era una rubrica sui miti che riguardano la cucina: per esempio se fosse vero, come diciamo qui, che i funghi non si dovrebbero lavare, perché altrimenti si impregnano d’acqua e diventano molli, o se fosse possibile sigillare la carne in una pentola rovente. Era solo una piccola rubrica online all’inizio, credo mi pagassero 75 sterline a settimana per scriverla, e una volta scrissi qualcosa sul miglior modo di cucinare le salsicce e sul sito, nei commenti sotto il post, le persone iniziarono a discutere in merito e il mio editore pensò fosse una cosa interessante, così mi chiese se potevo scrivere qualcosa sul modo migliore di fare il purè, perché salsicce e purè qui è un piatto molto famoso. Ai lettori piaceva molto che provassi le ricette delle food writer più famose, come Delia Smith o Nigella Lawson, seguendo le loro istruzioni e criticandole o lodandole, ed era una rubrica molto interattiva perché volevano aggiungere i loro consigli e così è nata How to Make the Perfect. Ci tengo sempre a precisare che anche se le hanno dato questo titolo così allettante, un po’ da clickbait, si tratta sempre della mia versione perfetta, quella che io ho reputato perfetta, ma su cui altre persone potrebbero non essere d’accordo e va bene così, è quello che amo del cibo, che tutti hanno le proprie opinioni a riguardo e possiamo discutere, ma anche goderci il buon cibo.
Che cosa del cibo in particolare scatena la tua curiosità?
A parte che mi piace mangiarlo, e credo si sia capito, mi piace il fatto che sia qualcosa di universale: è qualcosa che riguarda il presidente degli Stati Uniti, tanto quanto una persona che vive sotto la soglia di povertà in Bangladesh. Tutti abbiamo bisogno di mangiare, ma ognuno di noi ha il proprio gusto, ugualmente valido, e ognuno ha una propria storia con il cibo, che è unica, e questo potrebbe anche voler dire che abbiamo dei problemi con il cibo, ma mi piace che ognuno abbia comunque il proprio gusto, di cui andare fiero. E il cibo mette tutti in condizioni di parità. La storia è un argomento che mi interessa molto, ma non tanto quella che si insegna a scuola, le guerre, i re e le regine. Piuttosto mi interessa la storia sociale e mi piace molto, quando visito palazzi antichi o vecchie case signorili, scendere a dare un’occhiata alle cucine, perché lì è dove si racconta la storia dei singoli individui, rispetto ai grandi eventi politici. Quello che mi attrae del cibo in generale è il suo essere storia di vite, di gusti e di piaceri. Per la maggior parte delle persone il cibo, se possono averlo, è un piacere e proprio questo mi piace: l’universalità, il fatto che unisca tutte le persone del mondo.
Un ricordo di cucina di quando eri piccola.
Mia nonna paterna si occupava di preparare la Christmas Cake, quella grande torta di frutta che mangiamo di solito a Natale. Nell’impasto c’è tantissima frutta secca, ribes, ciliegie, uvetta e alcune volte albicocche e datteri, è scura, e si ricopre con uno strato di marzapane, poi uno strato di glassa, quindi è molto grande e pesante: mio padre diceva sempre che ci avresti potuto uccidere qualcuno. E c’è stato un Natale in cui è stata effettivamente usata come ferma porta, perché la porta della cucina continuava a chiudersi! Non credo che mia nonna fosse stata molto contenta della cosa, ma mi fece molto ridere. Mia nonna è morta quando avevo 11 anni e ora sono io che preparo la Christmas Cake per tutti. Ai bambini della mia famiglia non piace molto, preferiscono un tronchetto al cioccolato come il Bûche de Noel, ma io ancora la preparo e adesso siamo ad Agosto e ancora ho metà della torta avanzata da Natale, perché si mantiene così bene! Basta incartarla e grazie alla glassatura e all’alcool, whisky o brandy, nell’impasto, si mantiene benissimo.
Quando provi una ricetta per te stessa, sei comunque una persona che tira fuori tutti i libri e cerca tra tutte le fonti disponibili la versione migliore di un piatto?
Vorrei riuscire a farti vedere tutti i miei libri di cucina perché ne ho così tanti! Troppi per le dimensioni dell’appartamento in cui vivo, quindi non riesco mai a consultarli tutti. Se ho tempo e sto cucinando per me e non per lavoro (cosa che non accade spesso onestamente, perché devo testare moltissime ricette) cerco di guardare i libri, piuttosto che Internet, sia perché secondo me sono più attendibili e poi quello che mi piace dei libri di cucina è che di solito puoi leggere anche la storia di un piatto e imparare qualcosa e sono più personali delle ricette che si trovano online. Di solito prendo qualche libro e vedo cosa attira la mia attenzione. Oggi è così semplice cercare online, ma provo a non farlo. Ed è bellissimo condividere queste cose, invece di tenere i libri a prendere polvere sulle mensole, quando trovi un piatto in un libro, lo cucini, ti piace e allora vuoi condividerlo con altre persone e far sapere all’autore che ti è piaciuto, e questo credo sia il grande pregio dei social. Adoro far uscire le ricette dalle pagine di un libro e condividerle.
Cosa cerchi in un ottimo libro di cucina?
Credo che la cosa più importante, che è molto ovvia, ma non così scontata, è che le ricette devono essere state testate e devono riuscire. Questa è LA cosa più importante in assoluto. Assodato che le ricette funzionano, credo che il valore di un ottimo libro di cucina stia, al contrario di quello che si trova online, nel suo essere personale, nel suo raccontare una storia particolare. Questo non significa che l’autore debba raccontare tutta la storia della propria vita (anche se in realtà è una cosa che mi piace, se succede sono contenta di leggerla) ma dovrebbe spiegare da dove viene la ricetta, come l’ha sviluppata, che significato ha per lui, si dovrebbe sentire che è la sua creazione e non una ricetta generica della Christmas Cake o del Panforte o altro. Da un libro di cucina vorrei imparare qualcosa, non solo il modo per preparare la cena, vorrei uscire arricchita dalla lettura, sapendo qualcosa in più su una certa cultura o su una persona o sulla storia. I libri di cucina che mi entusiasmano di più sono quelli che insegnano qualcosa molto di nicchia. Preferisco un libro che si concentra più su una regione specifica: sceglierò sempre un libro sulla cucina della Puglia, rispetto ad uno sulla cucina italiana in generale. E se è un libro sulla cucina ebraica della Puglia ancora meglio, vorrei qualcosa che somigliasse ad un ricettario di una nonna, quello mi piace tantissimo. L’ultimo libro che ho comprato (sono fortunata di solito me ne mandano molti tramite il mio lavoro, ma questo l’ho comprato) è americano, si intitola I am From Here e l’autore è Vishwesh Bhatt, nato in India ma cresciuto negli Stati Uniti. Lui vive negli Stati del Sud e fa una cucina del Sud, spesso con sapori indiani e anche se molte delle ricette non posso provarle, perché qui non si trovano alcuni ingredienti, adoro leggerlo. È emozionante ed educativo, perché lui è una persona non comune, io non conosco nessun altro food writer indiano del sud degli Stati Uniti, ha una prospettiva assolutamente unica ed è un piacere leggerlo. Sono una persona molto curiosa e voglio imparare qualcosa su di te o su una cucina nello specifico, qualcosa che mi educhi e allo stesso tempo mi consenta di cucinare piatti deliziosi.
I tuoi ultimi due libri sono racconti di viaggio piuttosto che libri di cucina. Immagino siano stati abbastanza diversi da scrivere, eppure tu hai una voce molto forte e unica, come l’hai trovata?
Ad essere onesta credo semplicemente di scrivere come parlo. Ho pubblicato 5 libri di cucina prima di One More Croissant for the Road, che è un diario di viaggio con una manciata di ricette. È stata un’esperienza nuova e abbastanza terrificante per me, perché i libri di cucina sono impersonali, puoi raccontare una storia sulla tua ricetta, ma non metti tanto di te stessa dentro il libro, mentre i libri di viaggio sono me e questo fa paura. Ai giornalisti viene detto spesso di mantenere un tono formale e impersonale e io non potevo farlo. Ma quando l’ho accettato, mi è piaciuto e mi sono divertita. È stato un bel cambiamento anche perché tu non puoi sapere se le cose che trovi interessanti o divertenti faranno lo stesso effetto ad altre persone. Per esempio ho riflettuto molto sull’includere i miei amici (che l’accompagnano in varie tratte dei suoi viaggi, n.d.r.) o lasciarli fuori dai libri, ma alla mia editor piacevano molto le parti con loro, perché sono simpatici e hanno ognuno la propria personalità. È stato strano condividere persone che non hanno niente a che fare con il cibo, con cui sono andata a scuola o all’università, e ora sono nei miei libri. Cerco di non ragionare troppo su quello che scrivo, cerco di scrivere e basta, nel modo in cui vedo le cose accadere, come se scrivessi un diario o un post di Instagram. Ovviamente passa tutto dalla mia editor e lei fa dei cambiamenti, soprattutto per rendere il racconto un po’ più conciso (mi piace parlare, come avrai capito, quindi ho bisogno di un po’ di editing). Cerco di non lavorare troppo su quello che scrivo, perché penso che poi non sembrerebbe naturale, e alle persone piace quando vedono me nel racconto, che è anche il mio obiettivo, magari anche una versione migliore di me! Di solito prendo degli appunti, ma non quanti vorrei. Solitamente sono via per 8-10 settimane e quando sei in viaggio non riesci sempre a programmare la tappa successiva, non pensi “devo prendere appunti, devo iniziare a scrivere” e devi preoccuparti di dove andrai il giorno dopo o magari fissare un appuntamento a due settimane di distanza, quindi ci provo a prendere appunti. Faccio molte foto e le foto sono veramente utili per rinfrescarti la memoria su dettagli che magari non sono neanche nella foto, e ti fanno ricordare cosa è successo. Sono i dettagli più sciocchi che rendono vivo un luogo, come ricordare che in quel paesino in Cornovaglia c’era un negozio di kilt scozzesi e uno di lucertole esotiche, sono le cose strane come queste, quelle che ti fanno pensare “Ah! Me lo devo ricordare!” perché altrimenti due giorni dopo lo dimenticheresti. Non è facile mantenere l’equilibrio tra vivere il momento e pensare anche che quando tornerai a casa dovrai scrivere 8000 parole.
Che cuoca casalinga sei?
Quando sono a casa, e non devo seguire una ricetta di qualcun altro, sono molto classica. Mi colpiscono sempre quegli chef che abbinano ingredienti che non hanno la stessa provenienza geografica, che uniscono un pickle coreano con una salsiccia francese e un riso messicano. Il mio cervello non funziona così, se qualcosa ha, ad esempio, un sapore mediterraneo, magari aggiungo qualcosa di greco, ma mischiare troppo le cose mi sembra quasi sbagliato, sono proprio una purista. Quando leggo le ricette di qualcuno come Yotam Ottolenghi, che si sbizzarrisce con ingredienti di tutto il mondo, non ne sono attratta, ma quando poi le cucino mi piacciono sempre tanto. Odio lo spreco alimentare per cui la maggior parte di quello che cucino, se non seguo qualche ricetta, serve ad usare gli avanzi, quindi faccio unioni assurde solo per vedere se funzionano. Non sono una cuoca casalinga molto elegante, mangio tantissime cose mettendole su un toast. Mi piace fare prove e sperimentare cose che non sono veramente ricette. Credo di essere molto brava, se mi dai un frigorifero con tutte confezioni semi aperte e qualche carota vecchia, a tirarti fuori un pasto decente.
Chi sono le tue più grandi ispirazioni?
Jane Grigson, un’autrice britannica, morta negli anni ’90, che aveva una rubrica di ricette sull’Observer, l’edizione della domenica del quotidiano Guardian. La sua scrittura è così bella. Era un’autrice di ricette, in un periodo in cui non condividevano tutti i loro saggi sul cibo, quindi lavorava principalmente su quelle, ma inseriva sempre un’introduzione, spesso quasi accademica, che mostrava una grandissima conoscenza di storia, del contesto, alcune volte di letteratura e da lei si impara sempre qualcosa, non solo a preparare un piatto. Scrive in modo molto diretto, non è letteratura di alto livello, solo una scrittrice bravissima e per niente pretenziosa. Negli anni ’80 ha scritto un libro intitolato English Food, ed essendo inglese mi rendo conto che il concetto di “cibo inglese” sia motivo di ilarità in tutto il mondo, ma lei lo prendeva sul serio e raccolse ricette di tutta l’Inghilterra, e anche delle Isole Britanniche, per mostrare che si trattava di buon cibo, che reggeva il confronto con la cucina di campagna francese o la cucina povera italiana. Anche noi abbiamo le stesse cose e dovremmo esaltarle, per questo credo sia fantastica. Tra le più recenti mi piace molto Nigella Lawson, non solo per le sue ricette, che sono stupende, ma perché è una food writer molto sottovalutata. Lei aveva iniziato come scrittrice prima di diventare una personalità televisiva e se leggi il suo primo libro How to Eat è solo testo, non ci sono fotografie, ed è accessibile, ma anche molto ben scritto. Con il suo ultimo libro Cook, Eat, Repeat è tornata un po’ a questo stile, ci sono delle fotografie ma c’è molto di più in termini di racconto e uso delle parole. Ammiro molto il suo stile, credo sia una superstar ma dovrebbe essere considerata molto di più per la sua scrittura.
Secondo te perché i libri di cucina sono così popolari in Gran Bretagna e i food writer tanto seguiti, rispetto ad altri paesi?
Diciamo che posso parlare solo della differenza tra Regno Unito e Francia, che è l’altro paese che conosco abbastanza. Credo che in UK siamo molto più aperti ad altre tradizioni culinarie. In Francia, anche se è facile trovare un ristorante vietnamita o cambogiano o nord africano, questo è più o meno il massimo, non c’è un grande interesse, a livello di grande pubblico, per altre cucine. Nel Regno Unito, probabilmente a causa dell’impero britannico, abbiamo un’alimentazione molto più varia e ci arrivano continuamente trend da tutto il mondo, che non sono conosciuti solo dagli appassionati di cibo, ma che si trovano anche da Marks and Spencer (un grande magazzino e supermercato, n.d.r.). Siamo dei ladri culinari. Il rovescio della medaglia, però, è che a causa della nostra precoce rivoluzione industriale e dell’impero, il nostro cibo tradizionale, la cultura del cibo britannico, sono estremamente deboli rispetto a quelli francesi o italiani e non sono sponsorizzati allo stesso modo. Mia nonna era irlandese e cucinava cibo britannico e irlandese e basta, non avrebbe mai preparato un giorno un curry del Bangladesh e un altro uno stufato brasiliano, c’erano alcune cose che sapeva fare e che faceva bene e si limitava a quelle. Oggi la nostra dieta è talmente ampia che non c’è possibilità di imparare neanche una di queste cucine: perciò compriamo tantissimi libri di cucina, guardiamo programmi di cucina, ma a molte non facciamo veramente giustizia. Questo è un po’ triste, credo sia molto meglio essere in grado di fare bene poche cose, piuttosto che seguire ricette da tutte le parti e non avere mai grandi risultati. È bello che nel nostro paese ci sia tanta fame di cibo diverso, ma non ci diamo mai la possibilità di cucinarlo davvero bene, e quindi alla fine non cuciniamo molto in casa, non quanto tutti questi libri di cucina e questa televisione a tema suggerirebbero. Perché ovviamente siamo dispiaciuti di non riuscire a preparare quel curry come lo abbiamo assaggiato al ristorante, che è ovvio perché non siamo degli esperti, però poi le persone si scoraggiano e allora comprano cibi pronti e questo mi intristisce molto. Credo sia una situazione complessa. Gli editori, le emittenti televisive guadagnano ovviamente tantissimo con i contenuti food, ma questo non significa per forza che mangiamo meglio dei nostri nonni, ed è un peccato. Adoro che le persone qui siano più aperte alle influenze esterne, ma credo che dovremmo darci una calmata!
Credi che il rapporto tra i britannici e il cibo sia cambiato in questi ultimi anni?
Mi piacerebbe risponderti di sì, che le persone ora sono pronte a prendere il cibo più sul serio di quanto si faceva in passato. Credo che in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando c’è stato il razionamento e la situazione alimentare era abbastanza cupa, c’era l’idea che non si potesse davvero parlare di cibo, che fosse qualcosa che si mangiava per vivere e dovesse essere molto semplice, sostanzioso e darti energia, ma non per forza un piacere. Ora va bene trarre piacere dal cibo, parlarne. Mi chiedo però se alcune volte non ci lasciamo influenzare troppo dalle ultime mode, da quello che sembra bello sui social, dal fattore celebrità, e trascuriamo quello che è buono ma non fa rumore. C’è un tipo di cibo che chiamiamo “cibo beige” e effettivamente molti dei nostri piatti tradizionali sono parecchio marroni, perché viviamo in un paese freddo e umido e quello è il cibo che funziona, ma di certo non viene bene in fotografia, quindi le persone aggiungono un po’ di coriandolo, o una spolverata di semi di melograno. Non è necessario, a meno che tu non sia Yotam Ottolenghi non dovresti farlo. Credo che le cose siano cambiate in meglio, ma si fa ancora troppo affidamento sui cibi pronti e confezionati. Se vado in un ristorante e trovo un menù molto ampio mi preoccupo, perché è impossibile fare tutte quelle cose in casa. Vorrei un menù molto corto, di cose semplici fatte in casa. La crisi del costo della vita ha peggiorato la situazione, i ristoratori fanno fatica, devono trovare delle scorciatoie, il personale scarseggia per colpa della Brexit, è un periodo duro. E credo che non siamo neanche abituati a pagare il giusto per il cibo, siamo felici se è caldo e costa poco. Le cose stanno cambiando, ma vorrei che cambiassero ancora.
Puoi spiegare la Marmite agli italiani?
(ride) Il fatto è che per piacerti la Marmite probabilmente devi essere cresciuto mangiandola. È una pasta collosa sottile, marrone scuro, ed è un sottoprodotto dell’industria della birra, del lievito che è stato usato per produrre la birra. Dopo che la birra è fermentata, tutto il lievito rimasto viene trasformato in questa pasta che ha un carattere molto sapido. Abbiamo anche un altro prodotto simile, che si chiama Bovril, che è sempre una pasta marrone molto scuro, ma è fatto da brodo di carne ridotto tantissimo e si usa come un dado. La Marmite è vegetariana ed è molto utile per aggiungere note sapide, umami, ad uno stufato senza metterci carne. Ma in UK è comunemente usata sul pane tostato. Non ne serve molta perché è salatissima, è molto simile alla pasta di acciughe, ha la stessa sapidità aggressiva. Io la adoro, ma è divisiva anche per i britannici, io davvero non posso farne a meno, è deliziosa. Ho visto online delle persone che forse credono sia come la Nutella e la mangiano a cucchiaiate: non fatelo, è troppo forte! C’è una ricetta di Anna Del Conte, che ha insegnato a Nigella e lei l’ha resa ancora più famosa, degli “spaghetti burro e Marmite” (ecco il piatto di copertina di Feast, n.d.r.) ed è perfetta per una cena veloce, come faresti gli spaghetti aglio e olio, e sono molto saporiti, magari con un po’ di formaggio grattugiato sopra, sono buonissimi!
Apriamo il cassetto: un sogno piccolo e un sogno grande.
Un sogno piccolo è che mi piacerebbe molto scrivere un libro sul “road food” in America, ma viaggiando in bicicletta. Gli Stati Uniti hanno una grande cultura di questo cibo che si trova sulle grandi autostrade, il cibo dei diner, la route 66, i camion giganti. Ma da quello che ho potuto vedere si trova anche ottimo cibo su queste strade, ristoranti indipendenti, cibo Messicano o diner con una specifica cucina regionale e mi piacerebbe scoprire tutto questo in bici, perché presentarsi in bicicletta lascerebbe gli americani a bocca aperta. Potrei mangiare tanto cibo calorico perché starei faticando e credo sarebbe divertente mostrare questo lato della cultura americana del cibo con il mio mezzo. È un sogno, neanche tanto piccolo, ma non si realizzerà a breve. Invece il mio sogno grande è che mi piacerebbe e aprire un caffè da qualche parte nelle Alpi francesi per vendere toast al formaggio, quelli che in America chiamano “sandwich grigliati al formaggio” e avrei un grande successo, soprattutto tra gli sciatori. Sono buonissimi, sono il cibo perfetto per sciare e credo siano una delle cose che in UK sappiamo fare meglio dei francesi. Adoro la Francia, è uno dei miei paesi preferiti, ma i loro sandwich non sono un granché. Credo che potrei portare il mercato dei sandwich sulle Alpi, quello è il mio grande sogno.
La tua “cena immaginaria”: tre invitati, di qualunque ambito o epoca, chi inviteresti e cosa cucineresti per loro.
La scrittrice di viaggi irlandese Dervla Murphy, purtroppo scomparsa, che non sembrava interessarsi molto al cibo ma è una delle donne più coraggiose e curiose che abbia mai avuto il piacere di leggere. Lo chef e autore di viaggio, scomparso anche lui, Anthony Bourdain, perché come Dervla, sembrava avere un appetito smisurato per le storie delle persone ma, al contrario suo, amava più di tutte quelle legate al cibo. E la scrittrice britannica, assolutamente in vita, Caroline Eden, perché ha sempre uno sguardo sul ruolo che il cibo ricopre in una certa cultura. Credo che potremmo gustarci un bel whisky insieme. Farei una cosa semplice: frutti di mare locali freschissimi (granchio, capesante, vongole, gamberetti della baia di Dublino…) con parecchio pane integrale e burro salato, seguiti da uno steamed pudding (una cupola di pasta brisé ripiena di carne stufata e cotta in uno stampo apposito a bagno maria, n.d.r.) con carne di pecora e cipolla, e come contorni purè, cavolo navone e cavolo riccio. Per finire una zuppa inglese allo sherry, perché mi piace tantissimo e come le altre cose potrei prepararla in anticipo in modo da avere più tempo per ascoltare le chiacchiere!
Domanda “hot”: colazione all’inglese o cappuccino e cornetto?
Fry up tutta la vita, con una tazza di tè! Non mi piace la colazione dolce, adoro la cucina italiana ma le vostre colazioni sono troppo dolci per i miei gusti, non ce la faccio.
3 libri di cucina consigliati da Felicity:
Florence White, Good Things in England, Persephone Books, 1999
L’originale è del 1932 ed è stato recentemente ripubblicato dall’editore Persephone è sia un documento storico sul gusto e sulle tradizioni britanniche (nonostante il titolo) sia un libro di cucina e infatti molte delle ricette, raccolte tra quelle di cuoche casalinghe nel periodo tra le due guerre, meritano di essere provate.
Gurdeep Loyal, Mother Tongue: Flavour of a Second Generation, Fourth Estate, 2023
Questo è il primo libro di Gurdeep, immigrato di seconda generazione che viene da una famiglia Punjabi, ed è una celebrazione gioiosa della sue eredità culinaria mista, con tocchi di folle genio tutto suo.
Simon Hopkinson, Lindsay Bareham, The Prawn Cocktail Years, Michael Joseph, 2006
Uno sguardo nostalgico alle mode culinarie del Regno Unito del ventesimo secolo, dal filetto alla Wellington alla Foresta Nera. Credo di avere gusti simili agli autori perché ogni piatto che ho preparato da questo libro è stato una bomba. E non nel senso delle salsicce. (Felicity descrive il piatto con il termine “banger” che è usato anche per indicare le salsicce. Salsicce e purè si chiama infatti “bangers and mash” e per questo precisa che non c’entrano le salsicce con la bontà dei piatti preparati. L’uso di “banger” è un retaggio del periodo bellico in cui vista la scarsità di carne le salsicce venivano riempite di acqua, che le faceva scoppiare “bang” in cottura, n.d.r.).
Felicity ed io ci siamo viste su Zoom il 2 Agosto. Mentre aspettavo che si collegasse mi sudavano anche le palpebre, un po’ per il caldo, un po’ per l’emozione di parlare dal vivo con un’autrice che seguo da tanto, di cui leggo tutto e che aveva accettato di farsi fare delle domande da un’italiana sconosciuta, ossessionata dalla letteratura gastronomica.
Quando ha iniziato a parlare, ho avuto immediatamente conferma di cosa amo tanto dei food writer britannici, perché sono quasi sempre loro gli autori che leggo e compro di più: l’assenza totale di pomposità. La cultura che non diventa snobismo, lo sguardo critico che è curiosità più che analisi sdegnata, l’entusiasmo di imparare sempre qualcosa di nuovo, piuttosto che voler insegnare tutto a tutti.
Spero di essere riuscita a trasmettervi queste sensazioni attraverso le mie domande, e che vi sia venuta voglia di seguire il lavoro di Felicity Cloake e magari trarne ispirazione.
Bellissima intervista! Complimenti! 🎊🍾
Che meraviglia, grazie per questo regalo! Già da quando l'hai nominato in un precedente numero di sfoglia, ho subito inserito Red Sauce, Brown Sauce nella mia lista delle cose da leggere e ora penso proprio balzerà in cima (viaggio + bici + colazioni + UK: come faccio a resistere??)