Sfoglia 3 libri di cucina su quello che gli uomini dicono
un'abbuffata di testosterone e buon compleanno Sfoglia!
La mia professoressa di Lettere del liceo, una donnina minuscola, scura, con un caschetto, e una grinta, assimilabili a quelli di una giovane Coco Chanel, capace di infondere interesse per la letteratura anche al più atavicamente impermeabile agli stimoli dei suoi studenti, un giorno ci chiese se secondo noi fosse possibile, leggendo uno scritto, individuare se l’autore fosse uomo o donna. Se esistesse, insomma, uno stile prettamente maschile o femminile di scrittura.
È una domanda che mi porto dentro da tanti anni e che mi pongo spesso. È una domanda interessante anche nel mondo dell’editoria di cucina, in cui è sempre stata presente la dicotomia donna=manuale di economia domestica/libro di pasticceria, uomo=segreti del grande chef/manuale tecnico con estro rivoluzionario. Anche nel tono dei libri sembra ancora che le autrici tendano a darci consigli, più che istruzioni, ad essere in qualche modo rassicuranti, inserendo qua e là un piccolo tocco grazioso su come abbellire la tavola, uno spunto sul modo più opportuno di ricevere gli ospiti.
Esistono, dunque, uno stile maschile ed uno femminile nella scrittura gastronomica? In questo numero di Sfoglia mi ero dedicata a tre donne, tre autrici fondamentali, le cui storie interconnesse parlano di scoperta di sé, di fallimenti, umiliazioni e rinascita, di tenacia e senso dell’umorismo. Questa volta, perciò, mi sono chiesta: e gli uomini? Che ci dicono questi uomini? Su cosa si concentrano, cosa li muove a scrivere, dove ci portano raccontando il ruolo del cibo nelle loro vite?
I tre uomini che ho scelto parlano soprattutto di loro stessi (ovviamente - direte voi - si tratta di memoir e saggi personali) ma forse quello che hanno in comune è un pizzico di egoismo, una leggera prepotenza, che lascia un retrogusto amarognolo, che nulla toglie, anzi forse arricchisce le loro storie, ma che è lì, si percepisce, un “dovete capirmi” più che un “non ho capito nulla della mia vita, raccolgo i cocci e provo a ricostruire”. La loro esperienza del cibo è molto diretta, va dritta al punto. Loro assaggiano, mangiano, vanno in cerca del cibo, senza percorsi tortuosi, lo fanno spesso in modo autocompiaciuto, ogni tanto commovente, e non ci risparmiano alcun dettaglio.
Sembra anche che questi uomini non sappiano davvero gestire i loro traumi emotivi: la maniacalità, il risentimento, la rabbia diventano tratti fondanti della loro personalità, non vengono messi in discussione e magari superati, ma sono parte integrante del personaggio e, pur causando loro sofferenze, vengono accettati con una scrollata di spalle. Perdonatemi se parto un po’ per la tangente (sarà perché ho da poco finito di leggere Eroine di Marina Pierri) ma mi viene da dire che questi nostri “Eroi del cibo” siano sempre un po’ monolitici: affrontano situazioni, si confrontano con le loro paure, trovano la loro strada, ma alla fine, una volta che si sono “sistemati”, l’impressione è che il Viaggio non li abbia poi tanto cambiati, che si siano sempre piaciuti così com’erano e se sono riusciti a trovare il loro posto nel mondo, nonostante tutto, allora perché cambiare?
Ditemelo voi, dopo aver letto i 3 libri di cucina su quello che gli uomini dicono.
1. Stanley Tucci, Taste. My Life Through Food, Fig Tree, 2021
«Food at once grounded me and took me to other places. It comforted me and challenged me. It was part of the fabric that made up my creative self and my domestic self. It allowed me to express my love for the people I love and make connections with the new people I might come to love»
Aprile 2020. Stanley Tucci condivide su Instagram un video in cui prepara un cocktail nella sua cucina londinese, un video che diventa virale e ottiene più di cinque milioni di visualizzazioni, aprendo all’attore tutta una nuova platea di fan. Fan che forse non lo ricordano come il goffo Muerte di "Coppia d’azione” o come lo spietato sicario de “Il rapporto Pelikan”, ma lo associano soprattutto a Nigel de “Il diavolo veste Prada” e a Paul Child di “Julie and Julia”.
Capitalizzando proprio il successo di quest’ultimo ruolo e un’accertata passione per la cucina (in passato aveva già pubblicato due libri di cucina: The Tucci Cookbook del 2012 e The Tucci Table del 2015) Tucci sembra ora aver spostato tutte le sue energie sul mondo della gastronomia, prima con la docuserie, vincitrice di un Emmy, girata per la CNN "Stanley Tucci: Searching for Italy” e poi con questo libro, tradotto in italiano da Baldini+Castoldi con il titolo Ci vuole gusto. La mia vita attraverso il cibo.
Non si tratta in realtà di un food memoir, lo definirei piuttosto un’autobiografia con ricette, in cui l’autore, ripercorrendo la sua vita, si rende conto di come sia sempre stato il cibo il punto focale di ogni sua esperienza. Sembra quasi che nell’atto di trascrivere i momenti più rilevanti della sua vita, pagina dopo pagina, lui stesso prenda consapevolezza del fatto che, nonostante la splendida carriera cinematografica, sia stato in realtà l’amore per il cibo a definirlo, creativamente e come uomo.
«Food, its preparation, serving and ingesting, was the primary activity and the main topic of conversation in my household growing up»
Il New York Times ha definito questo libro «easily digested but undercooked» rilevando che si inserisce in un genere ormai ampiamente sfruttato, con standard molto alti, e non sembri abbastanza forte per distinguersi rispetto alle storie di altri grandi autori. Ma se i racconti della prima parte sono un po’ scollati tra loro e non approfondiscono alcune tematiche che avrebbero meritato più spessore, l’ultima parte è sicuramente la più interessante e coinvolgente.
Nel racconto della sua malattia Tucci non si nasconde più dietro l’ironia, ma descrive con onestà lo sbigottimento, la paura, la depressione di un periodo molto buio della sua vita: un periodo in cui la prospettiva concreta di non poter trarre mai più piacere dal cibo, la necessità di alimentarsi attraverso un tubo, l’impossibilità di gioire davvero per la nascita della figlia più piccola, hanno evidentemente spostato l’attenzione su quello che per l’autore è la parte migliore della vita: il buon cibo e la possibilità di gustarlo e condividerlo con le persone che ama. E questa rivelazione, per la sua grande semplicità e verità, vale per me tutto il libro.
«Acting, directing, cinema and the theatre had always defined me. But after my diagnosis I discovered that eating, drinking, the kitchen and the table now play those roles. Food not only feeds me, it enriches me. All of me. Mind, body and soul. It is nothing more than everything»
Stanley Tucci racconta orgoglioso la sua relazione speciale con l’Italia e sembra comprendere molto bene il rapporto tutto italiano con la cucina, il dogmatismo nell’esecuzione delle ricette, l’attaccamento a rituali e tradizioni, ricordandoci anche come il resto del mondo, a torto o a ragione, ci vede: un popolo che cresce attraverso il cibo, la cui esperienza familiare raramente ne è svincolata, la cui conoscenza del buon cibo è più che altro un rapportarsi ad esso costantemente, in un dialogo continuo che inevitabilmente ci definisce.
Non si addentra in discorsi etici o moralistici, ma si sofferma molto sul valore che andrebbe riconosciuto alle connessioni umane che il cibo instaura, a partire da chi crea, produce o vende gli alimenti che finiscono sulle nostre tavole. Non vuole essere controverso, è semplicemente onesto nell’ammettere che ama mangiare, tutto, e non ha alcuna intenzione di rinunciare a questo piacere senza paragoni.
«Cook. Smell. Taste. Eat. Drink. Share. Repeat as necessary»
2. Nigel Slater, Toast. The Story of a Boy’s Hunger, Fourth Estate, 2003
«Warm, soft and creamy, this wasn’t food that could be a kiss or hug, like marshmallows or Irish stew, this was food that was pure sex»
Nigel Slater «a cook who writes», come si auto definisce, è una delle divinità gastronomiche UK. La sua autobiografia Toast celebra quest’anno il suo ventesimo anniversario, e credo sia un eufemismo dire che si tratti di una pietra miliare della letteratura gastronomica, un libro premiato con il British Book Award, adattato dalla BBC in un film con Victoria Hamilton e Helena Bonham Carter (potete guardarlo qui) e trasformato in uno spettacolo teatrale itinerante, replicato nei teatri di tutto il Regno Unito.
Un libro che racconta una generazione e una società intera, il suo rapporto con il cibo, ma anche una storia personale, emotivamente ricostruita nei minimi dettagli, un complicato rapporto padre-figlio, la sopravvivenza ad un lutto e la fuga come rinascita e realizzazione personale.
Tutto nasce da un articolo per l’Observer che gli chiede un pezzo sul cibo della sua infanzia. Slater, reduce da un’educazione gastronomica disastrosa, fatta di toast bruciacchiati e cibo in lattina, contestualizza il cibo tipico dell’Inghilterra degli anni ’60 attraverso la propria storia personale: una madre non particolarmente portata per la gestione della casa, afflitta da problemi di salute, per cui Nigel, che sfoglia di nascosto riviste di cucina, prova spesso risentimento; un padre burbero, ai limiti dell’abusante, chiuso in se stesso, che vorrebbe un figlio molto più maschio di così. L’articolo riscuote grandissimo successo e la casa editrice Fourth Estate contatta l’autore per trasformarlo in un’autobiografia incentrata sulla sua giovinezza.
«I remember stomping into the greenhouse and telling my father he should get a new wife. One who didn’t burn everything»
L’aspetto che colpisce immediatamente è la straordinaria capacità dell’autore di ricordare il suo passato in ogni minimo dettaglio, di rievocare, attraverso una scrittura delicata e poetica, i suoi ricordi in modo tanto nitido, attraverso odori, rumori, sensazioni, gusti. Un sentimento universale di infanzia, romantico da una parte, ma anche esemplificativo di un certo egoismo del protagonista. Nigel non si vergogna a mostrarsi, almeno all’inizio, come un personaggio abbastanza antipatico. Cresciuto in condizioni economiche privilegiate rispetto a molti suoi coetanei, subisce l’atteggiamento piccolo borghese dei propri genitori, che evitano cose e persone troppo “common”, e pretende da una donna mite e cagionevole come la madre standard culinari che non le appartengono, senza comprenderne la fragilità.
Intervistato da Tim Adams sul Guardian l’autore ricorda «[…] lei bruciava cose ed io rimanevo molto deluso. Sapevo che la notte in cui morì avevamo avuto uno scontro. Avevamo litigato per delle mince pies che avrei voluto aiutarla a preparare, e in pratica le mie ultime parole a mia madre sono state “Spero che tu muoia”. Non mi chiesero se volessi andare al funerale o se volessi vederla, non eravamo per niente quel tipo di famiglia. Quindi non le ho mai detto addio. Penso di averlo fatto con il libro. Spero».
Kathleen Slater muore di asma quando il figlio ha nove anni e, perdendo la madre, Nigel perde tutto. Viene abbandonato a se stesso, dimenticato da un padre incapace di comunicare il proprio dolore, lasciato solo con le sue paure e obbligato a rimpiazzare una madre amorevole con una cercatrice di fortuna priva di scrupoli.
In questo contesto il cibo diventa l’unico vero compagno: è il veicolo dei ricordi, che fluiscono in piena dalla sua penna, è il conforto, l’aspirazione del bambino che sa che solo nel cibo potrà trovare il suo riscatto. «Volevo terminare il libro con la morte di mio padre quando avevo sedici anni, ma questo non avrebbe mostrato alle persone come il cibo avesse completamente preso le redini della mia vita, in quel momento nella mia vita non avevo niente, e cucinare aveva del tutto riempito il vuoto. Diventò per me molto più importante delle persone o dei soldi o di qualunque altra cosa».
«Warm sweet fruit, a cake in the oven, woodsmoke, warm ironing, hot retriever curled up by the Aga, mince pies, Mum’s 4711. Every child’s Christmas memories should smell like that. Mine did. It is a pity that there was always a passing breeze of ammonia»
È una storia a tratti straziante, ma che non perde mai una vena ironica, è concreta e reale (in alcuni passaggi sembra di guardare Tommy di The Who per la ricostruzione del periodo, con quel pizzico di squallore tipicamente inglese) e ammirevole per la sua brutale onestà. Scopriamo che il bambino timido, desideroso di conquistare con ogni mezzo, soprattutto con il cibo, l’attenzione del padre, che vorrebbe vedere semplicemente riconosciuta la propria esistenza, si trasformerà in un adulto schivo e ansioso, che ha «paura anche della sua ombra», che evita i posti affollati e preferisce viaggiare da solo, ma che non teme la pagina, attraverso cui si racconta senza filtri, in questo libro, come nei suoi altri e nelle rare interviste concesse ai colleghi.
Nel podcast di Elizabeth Day How to Fail confessa come primo fallimento quello nei confronti del padre, per essere nato quando la madre aveva già quarant’anni, esacerbandone le problematiche di salute, e per non essere mai stato il tipo di figlio che lui avrebbe voluto. E questo costante senso di fallimento distruggerà nel bambino, e nel futuro uomo, ogni sicurezza di sé.
«My father sighs one of those almost imperceptible sighs that only fragile boys who regularly disappoint their father can hear»
Nigel Slater oggi è un mito, adorato dai suoi lettori, come dai colleghi cuochi e food writer. Addirittura Diana Henry ha confessato di essere talmente nervosa al momento di preparargli una torta da aver rovesciato a terra tutto l’impasto: «Perché tutto questo impegno?» scrive Henry «perché anche se molti food writer possono diventare importanti nella tua vita […] pochi cambiano veramente il tuo modo di guardare il cibo. Nigel Slater l’ha fatto per me. […] Nigel ci ha mostrato la bellezza del familiare e dell’apparentemente ordinario».
3. Anthony Bourdain, Medium Raw. A Bloody Valentine to the World of Food and the People Who Cook, Ecco, 2010
«Sometimes I think I should feel a little guilty about writing stuff like the above. It’s porn. Albeit food and travel porn. I had it, I lived it - and, chances are, most of the people reading this have not»
Bourdain è stato il primo. Quello che non solo ci ha fatto scoprire la categoria a lungo ignorata degli chef, il mondo losco e seducente del personale di cucina, ma che ha saputo rendere queste persone interessanti ai nostri occhi.
È il 2000. Dimentichiamoci Netflix, dimentichiamo Chef’s Table, Michael Pollan. The Food Network, il canale americano esclusivamente dedicato alla cucina, ancora non è il fenomeno che diventerà in futuro, e siamo lontani dalla figura del cuoco superstar televisiva. Qualcosa, certo, si sta muovendo: nel 1995 nascono i siti Epicurious e AllRecipes, orientati principalmente a fornire ricette a chi sempre più si rivolge ad Internet per cercare informazioni e Martha Stewart è la “one woman show” che ha il monopolio editoriale in ambito food, con libri, magazine ed un programma tv di grandissimo successo. Nella seconda metà del decennio compaiono i primi food blogger, ma il focus continuano ad essere piatti e ricette.
E poi arriva lui. Tony. Un cuoco di modeste capacità, per sua stessa ammissione, che pur diplomato al prestigioso Culinary Institute of America, e ben inserito nell’universo culinario di New York, a 44 anni ancora dirige la cucina del ristorante Les Halles perché molto più interessato alle droghe pesanti che a costruirsi una solida carriera.
Bourdain in realtà è uno scrittore. Ha già pubblicato due romanzi noir (Bone In the Throat nel 1995 e Gone Bamboo nel 1997, entrambi accolti con poco entusiasmo) e, sebbene non lo ammetta mai del tutto, e tenda a romanticizzare l’esperienza lavorativa di cuoco, l’urgenza di scrivere è molto più intensa di quella di cucinare. Invia articoli e saggi alle principali riviste e supplementi di quotidiani e nel 1999 il New Yorker pubblica, finalmente, “Don’t Eat Before Reading This” che offre uno sguardo completamente nuovo su quello che accade nelle cucine dei ristoranti.
«Professional cooks belong to a secret society whose ancient rituals derive from the principle of stoicism in the face of humiliation, injury, fatigue, and the threat of illness»
Come per Slater anche a Bourdain, vista la risposta dei lettori, viene chiesto di espandere l’articolo, rendendolo quello che è oggi un libro di culto, il food memoir per eccellenza, la lettura obbligatoria per ogni appassionato del genere (parlo ovviamente di Kitchen Confidential). Cuochi, sous-chef, lavapiatti: la brigata di cucina come una ciurma di pirati, la sporcizia, la droga, il sesso, la fatica, gli orari inumani, segreti che gli avventori dei ristoranti ignorano sono ora serviti a tutti, con uno stile iperbolico, maleducato, perfettamente calzante.
Passano dieci anni. Bourdain ha 54 anni, una figlia piccola, una carriera televisiva che gli consente di fare le due cose che ama di più al mondo: viaggiare e scrivere. Ha libertà assoluta nella creazione e realizzazione del suo show Parts Unkown, frequenta i più grandi chef del mondo, pasteggia con il cibo più audace, il più strano, il migliore.
Medium Raw (in italiano Al sangue, Feltrinelli, 2010) altra raccolta di saggi sul mondo del cibo e della ristorazione, è, in fondo, Bourdain che fa quello che sa fare meglio: sale su un piedistallo e giudica, divide i buoni dai cattivi, vomita la sua opinione sugli argomenti più dibattuti del momento (sostenibilità, vegetarismo, etica nel cibo, il mondo food televisivo, lo stato del food writing) ma lo fa talmente bene, in modo così unico e personale, che leggendolo c’è sempre qualcosa da imparare. In World Travel: an Irreverent Guide (Bloomsbury, 2021) Laurie Woolever, sua storica assistente e co-autrice del suo ricettario Appetites (Bloomsbury, 2016), scrive: «L’importanza assoluta del suo impatto culturale mi è stata chiara solo dopo che è morto».
«I was, needless to say, not a happy man»
Per il lettore odierno, che conosce la fine della storia, ci sono passaggi dolorosi, che mettono a disagio, come il racconto del periodo successivo al divorzio dalla prima moglie e i pensieri suicidi. Ma anche i capitoli dal tono più leggero e positivo, quelli che parlano della figlia, dell’aver scoperto nella paternità una gioia inaspettata e totalizzante, non sono facili da digerire, perché dietro le affermazioni lapidarie si intravede la nostalgia, l’altra faccia della medaglia, quella tendenza alla romanticizzazione estrema, quasi ingenua, di situazioni e persone, deleteria tanto quanto l’opposto sentimento critico e distruttivo.
Il “nuovo” Bourdain giudica se stesso con grande lucidità: fabbricandosi insulti più efficaci di quelli rivoltigli dai suoi detrattori si definisce «A loud, egotistical, one-note asshole who’s been cruising on the reputation of one obnoxious, over testosteroned book for way too long and who should just shut the fuck up» e racconta candidamente da quale stato d’animo era scaturito Kitchen Confidential. Una condizione che ora, uomo di mezza età, padre di famiglia, non riconosce più sua, una rabbia e un risentimento che sente di essersi lasciato alle spalle.
Non rinuncia certamente a “togliersi dei sassolini”, come vendicarsi delle dichiarazioni di Alan Richman (critico gastronomico di GQ magazine) o manifestare tutta la sua disapprovazione per Alice Waters (esatto, quella Alice Waters, quella di Chez Panisse) la madre dello Slow Food, colpevole di generalizzare e semplificare il discorso sulla sostenibilità, sul cruelty-free, sul biologico ad ogni costo, giudicando una situazione complessa dall’alto di una posizione di grande privilegio, che non tiene conto di molte difficoltà.
«What makes Alice Waters such a compelling character is her infectious enthusiasm for pleasure. She’s made lust, greed, hunger, self-gratification, and fetichism look good»
È, però, anche estremamente magnanimo nell’elencare i suoi eroi, i “buoni” del panorama gastronomico mondiale, gli chef che maggiormente lo ispirano, di cui, fedele al suo stile estremista, tesse lodi smisurate. Alcuni sono facili da immaginare, come Fergus Henderson (chef del St.John di Londra, pionieristico autore di Nose to Tail Eating: A Kind of British Cooking, Bloomsbury, 2004 che Bourdain ha più volte indicato tra i libri di cucina fondamentali), David Chang (cuoco e imprenditore dell’universo Momofuku) o l’amico fraterno Éric Ripert (chef del tristellato Le Bernardin di New York) altri inaspettati come Jamie Oliver e altri ancora, come Mario Batali, che avrebbero forse richiesto una valutazione più accurata.
Ma Anthony Bourdain può dire quello che vuole, quello che pensa, moltiplicandolo per mille, rendendo i suoi pensieri ancora più caustici grazie alla padronanza delle parole, che conferma di non aver mai perso. Nel 2012 dichiara: «Io sono uno storyteller. Vado nei posti, torno indietro. Vi racconto come quei posti mi hanno fatto sentire».
«Let’s face it: I am, at this point in my life, the very picture of the jaded, overprivileged “foodie” (in the very worst sense of that word) that I used to despise»
Medium Raw è sicuramente meno rivoluzionario e d’impatto, rispetto a Kitchen Confidential, in alcuni punti sembra più un esercizio di “Bourdanismo” che qualcosa di totalmente autentico e grezzo (potrebbe essere questo in parte il senso del titolo?). L’autore è estremamente consapevole, come solo un uomo può esserlo, delle sue capacità, ma il libro è soprattutto un’istantanea del mondo food degli anni successivi al 2000, delle tematiche che ancora oggi sono le più dibattute, ed è un’ode al food writing, che ha dolorosamente perso uno dei suoi più brillanti esponenti. Per gli amanti di Bourdain è anche un’ulteriore finestra sul suo modo di vivere, sul suo essere dipendente dalle grandi emozioni, cercate di volta in volta in luoghi nuovi, fisici e non.
«I became seduced by the world - and the freedom that television had given me - to travel it as I wished. I was also drunk on a new and exciting power to manipulate images and sound in order to tell stories, to make audiences feel about places I’d been the way I wanted them to feel»
Il cibo, anzi, mi correggo, il buon cibo, quello inseguito dai foodies, non è la cosa più importante del mondo e nell’editoria è ancora un argomento di serie B, ma un libro come questo, che cattura il lettore su più livelli, per i concetti che esprime, per come è scritto e per quello che svela del suo autore, mostra chiaramente le possibilità creative che offre questo genere. Nelle parole di Laurie Woolever «Ci sono rischi, e ci sono ricompense, nell’essere esposti alla fame che ha il mondo intero di mangiare, viaggiare e vivere come Tony».
Fuori menù:
Se non l’avete mai vista recuperate la puntata di Parts Unkown dedicata al Lower East Side, molto più di un documentario food o travel, un vero capolavoro televisivo.
Una crociata morale contro i foodies, un articolo interessantissimo su The Atlantic.
Un anno fa usciva il primo numero di Sfoglia. Mi ero detta “lo faccio per me, tanto non mi leggerà nessuno” e invece mi state leggendo in tanti, molti di più di quanti avrei osato sperare. Quindi il primo ringraziamento è per voi, perché avete trasformato una passione in qualcosa di concreto e tangibile, che mi ha fatto imparare tantissimo e mi ha regalato altrettanto. Il secondo ringraziamento è per Valentina Aversano, terapeuta della creatività, senza la cui guida illuminata Sfoglia non sarebbe mai uscita dal quaderno, che mi ha fatto scoprire tanto di me stessa, quanto di come si fa una newsletter. Il terzo ringraziamento è per Alice Fadda, la mia “cugina di newsletter”, che mi ha ascoltato, spronato e sgridato (molto più sgridato) nei momenti di crisi e che continua a leggere quello che scrivo anche se tratto un argomento che non le interessa minimamente. Altri ringraziamenti non meno importanti (vi giuro, a una certa mi fermo): Alessia Ragno, che ha accettato di scrivere su Sfoglia quando era ancora un mini croissant, che è sempre una grande ispirazione e da cui provo ad imparare come si parla davvero di libri. Marta Scano, la Kathleen Kelly di Instagram, che è stata una delle prime a farmi sapere che le piaceva il mio piccolo progetto e con cui posso parlare di ossessioni e manie libresche senza vergognarmi. E poi Giulia Scarpaleggia, una grande professionista e una persona stupenda e tutte le altre fantastiche persone che hanno accolto sempre con entusiasmo la richiesta di essere intervistate: quelle con cui ho già avuto il piacere di chiacchierare e quelle con cui spero parlerò in futuro, ma anche chi si è sottoposto al BookTasting e le mie care Sfogline (che ritroverete il prossimo Natale). In ordine di apparizione: Sara Savorelli, Manuela Cristofani, Luca Ogliotti, Martina Francesconi, Andrea D’Ippolito, Melissa Forti, Sigrid Verbert, Irene Fossa, Elisa Bertinelli, Eleonora Fermani, Laura Lazzaroni, Rossella Venezia, Myriam Sabolla.
Che gran figata scrivere una newsletter! Alla prossima.
No, non sto piangendo mi è solo entrata un’intera cucina negli occhi! Auguri Sfoglia, centomila di questi numeri!
Questa newsletter è una vera new! Nel senso che non ci pensi mai… quando vai sul personale con il cibo pensi più un rapporto al femminile( come se solo le venus possano legarsi emotivamente al “food”) ed esattamente come dicevi tu il sesso opposto avrebbe invece un rapporto più tecnico..e invece vedi un po’ …qst men! 😂il primo mi ispira tantissimo!
Complimenti e auguri 😽 🥰