Laringite, tonsillite, streptococco: finalmente un numero della newsletter che parla di come affrontare con l’alimentazione i malanni che ci affliggono ogni inverno. 3 libri di cucina sul miele, sui cibi antibatterici, sulla dieta olistica. Davvero?
No.
Vi deluderò, ma la “voce” del titolo di questo numero non è «l’insieme dei suoni articolati emessi dall’uomo». È il modo di scrivere, il tono dell’autore, lo stile personale nella scrittura. Anche se non ci interessa, anche se non ci abbiamo mai riflettuto, tutti abbiamo una voce, che sarebbe bello scoprire, a prescindere dal doverla poi esercitare.
Sono due mesi che non scrivo questa newsletter, non sto qui a tediarvi sul perché (grazie di cuore a chi ha sentito la mia mancanza) e durante questa lunga pausa mi sono interrogata moltissimo su quale potrebbe essere questa mia voce, su quali argomenti mi piacerebbe approfondire, sul modo in cui vorrei farlo, ma anche sulla forma della newsletter, perché dopo quasi due anni mentirei se dicessi che non sono sbocciati alcuni dubbi, alcune incertezze.
Vi racconto una cosa di me. Sono una persona molto entusiasta, ai limiti del fastidioso, mi emoziono, mi appassiono, ho continue “rivelazioni” che non vedo l’ora di condividere con il mondo, ma mi capita anche di freddarmi, con intensità pari a quella con cui, poco prima, avvampavo di gioia per una nuova scoperta. Una delle situazioni che mi congela immediatamente è rendermi conto che c’è troppo di tutto. Quante newsletter ci sono? Un quantitativo enorme, sempre più belle, sempre più varie e approfondite, che stanno soppiantando gli abbonamenti alle riviste, che hanno portato giornalisti ed editor di importanti titoli internazionali a spostare completamente il loro lavoro su Substack (il grosso sono loro e un manipolo di nazisti a quanto pare, ma chi si formalizza).
E il cibo? Quanto si parla di cibo? Costantemente. Se volessi andare su Marte domani troverei sicuramente su qualche sito “I 5 coffee specialty migliori da gustare sul Pianeta Rosso per scaldarsi un po’”. Non è certo una novità che il cibo susciti tutto questo interesse, ma ormai credo sia difficile trovare un luogo, fisico o virtuale, in cui non si parli, si disserti, si analizzi il cibo.
«La seduzione del food si è insinuata nelle crepe della nostra società, sbaragliando qualsiasi antagonismo culturale, perché fa riferimento a un bisogno primario e carnale come l’atto del mangiare» scrive Valerio Massimo Visintin in Dietro le stelle. Il lato oscuro della ristorazione italiana (Mondadori, 2022). Si tratta necessariamente di una cosa negativa? Direi di no, perché io stessa ho in qualche modo aggiunto la mia voce a questo coro e, solo dopo aver avuto il coraggio di farlo, ho avuto anche l’opportunità di scoprire quante persone condividevano la mia passione e avevano voglia di parlarne e ho potuto confrontarmi con voci meravigliose, sempre nuove, che mi ispirano ogni giorno.
Ma non posso ignorare che qui non si tratta più del piccolo ma volenteroso coro della parrocchia, che si sgola sulle note di Pane del cielo, mentre la vecchina arcigna passa col cestino delle offerte, qui ormai siamo alla marcia trionfale dell’Aida messa in scena all’Arena di Verona. Un’inondazione di voci. E in una cacofonia del genere la mia prima, istintiva, e probabilmente sbagliata, reazione è l’afonia.
Sono un’entusiasta e credo fermamente nella bellezza e nella romanticizzazione della nostra vita, in modi anche piccoli: annotando i pensieri su quaderni bellissimi, saltando un giro di aspirapolvere per dedicarci a preparare una torta a strati, “buttando” un pomeriggio sul divano con una bevanda calda e un libro. Ma sono anche cinica, ho un umorismo abbastanza dark, combatto il prendersi troppo sul serio e sono davvero poche le cose su cui non mi va di scherzare.
La mia voce, quindi? Certi giorni vorrei fosse quella di Ricky Gervais, ma poi penso di non essere abbastanza brillante, o abbastanza sfacciata per quella, e allora riflettendo ho capito che una voce che mi starebbe proprio bene è quella di Deadpool (“conteniamo moltitudini” si era detto, giusto? Non si tratta di disturbo della personalità). Perché Deadpool? Prima di tutto perché sono sempre stata anche una discreta nerd e gli adulti in costume di lycra attillato mi comunicano immediatamente coolness, e poi perché Wade Wilson è irriverente, dissacrante, immerso nella cultura pop, rompe continuamente la quarta parete, e ha anche un cuore d’oro.
E che c’entra Deadpool con il cibo? Tralasciando il fatto che tra i primi risultati di “Deadpool quotes” su Google compare una citazione sulla pizza, il punto è che io non credo che Sfoglia parli di cibo (👆annulla iscrizione).
Sfoglia parla di parole, di immagini, di idee di persone speciali, molto più speciali e preparate e brillanti di quanto io potrò mai essere, che ci aiutano a comprendere, a collocare questo cibo di cui non possiamo fare a meno, che riescono a dargli un luogo, un mondo e un perché.
Per iniziare a trovare la mia voce, quindi, non potevo che partire dagli amati libri e dagli autori che, per motivi diversi, riaccendono sempre la scintilla e mi ricordano quanto mi manca, e quanto ho bisogno, di scrivere questa newsletter. Questi sono 3 libri di cucina per chi ha problemi di voce. Ma prima, lasciatemi citare una “ricetta” di Deadpool:
«What do you get when you take 8-feet of chrome, one pinch of courage, a cup of good luck, a dab of racism, a splash of diabetes, and a wheelbarrow of stage 4 cancer? Answer: a family»
1. Nigel Slater, Greenfeast. autumn, winter, 4th Estate, 2019
«A black, wet, winter’s night. The kitchen is dark save for the light from the oven. A light as sweet as treacle»
Scrivere di cibo non significa solo incastrarsi tra grammi e cucchiaini, contare ciotole e ricorrere a perifrasi prestabilite come “a neve ferma” o “finché dorato”. Descrivere la luce di un forno evoca un’immagine chiarissima nella mente di chi passa tanto tempo in cucina e la rende poetica, come è intrinsecamente poetico tutto quello che ha a che fare con il cibo.
Parlavo di romanticizzare la propria vita, e se c’è una voce a cui mi rivolgo quando ho bisogno di recuperare la poesia della quotidianità è senza dubbio quella di Nigel Slater. Quest’autore meraviglioso che dovreste ormai conoscere molto bene (ne abbiamo parlato in questo numero) ha uno stile inconfondibile, leggerlo è come sentir cantare Axl Rose: non potresti mai confonderlo con qualcun altro.
Greenfeast fa parte di una duologia dedicata alle verdure, divisa in Primavera/Estate e Autunno/Inverno. Entrambi i libri si muovono a partire dalle scelte alimentari vegetariane dell’autore, rispettando i prodotti di stagione con preparazioni mai troppo complicate. Andrebbero posseduti entrambi, ovviamente, ma ho scelto autumn, winter, perché avevo proprio bisogno di scaldare l’inverno del mio cuore (con le sue parole e con la minestra di fregola, cavolo nero, funghi e pecorino).
Slater parla dei suoi ingredienti perdendosi nei dettagli più minuti, con molta attenzione alle parole, mostrandoci il suo modo di fare esperienza dei piatti. Per lui il tofu è «trembling», il burro o i formaggi che si sciolgono formano sempre una «pool», le zuppe invernali di cereali e legumi, sempre denigrate per il colore poco appetibile, «wrap you in the culinary version of cashmere».
«A ladle is the spirit of generosity. Deeply comforting, capacious, motherly. A ladle is a spoon that is expecting friends for dinner»
I titoli dei piatti sono solo i nomi di pochi ingredienti principali e le descrizioni sembrano haiku, una riga, poche parole evocative. «A soft pillow of egg. A tangle of vegetables». «The sweetness of leeks in butter. The quiet heat of mustard». Le parole di Nigel scivolano nella testa nella penombra delle serate invernali, alimentando una disposizione d’animo romantica, tanto quanto il desiderio di cucinare.
«But these of course are the romantic notions of a hungry cook, not those of the scientist»
E visto che qui parliamo proprio di un altro livello, anche l’elemento estetico è curato in ogni dettaglio. Il formato del libro è piccolo, compatto, con la copertina morbida, che potremmo portare con noi per leggerne estratti ogni tanto, magari quando siamo obbligati ad ingurgitare un tramezzino freddo davanti al computer. La rilegatura in tessuto, preziosa, è ornata in copertina solo da una pennellata dorata. Perché l’arte si può coniugare con il cibo non solo nelle sale curate dei ristoranti stellati, ma anche nella normalità delle nostre cucine.
L’artwork dei libri è, infatti, affidata a Tom Kemp, artista che lavora soprattutto con la ceramica, decorando grandi vasi con singoli tratti di pennello. Tra le pagine, nei capitoli, si alternano queste semplici pennellate, nero su bianco, che per l’artista rappresentano la materializzazione di un pensiero o di un sentimento.
Devo dirvelo che la pennellata di copertina si compone avvicinando i due volumi della serie? Ok, non ve lo dico.
2. Ravneet Gill, The Pastry Chef’s Guide, Pavilion, 2020
«Pastry is an art but it is also food, so remember to stay in touch with your ingredients, reflect the season and, for the love of God, don’t use strawberries in December»
Questo è un manuale di pasticceria, con cui realizzare meravigliose torte, impasti sfogliati, crostate e preparazioni complesse, perché è chiaro, completo, immediato. Ma non è questo il motivo per cui l’ho inserito in questo numero.
L’ho scelto, in realtà, per due motivi.
Il primo è che quando siamo alla ricerca di qualcosa, quando siamo afflitti dai dubbi, non dovremmo essere anche a stomaco vuoto e, nello specifico, dovremmo assumere degli zuccheri, perché quando il cervello è bisognoso di energia servono zuccheri rapidi e il nostro cervello, in questi momenti, ci serve molto (è la scusa che uso da una vita, non credo abbia alcun riscontro scientifico, non serve ringraziarmi).
E Ravneet Gill, che è stata chef pasticciera al St.JOHN di Fergus Henderson, ha inserito nel libro la ricetta della Twice-baked chocolate cake, un tripudio di cioccolato in due consistenze, che è ancora nel menù del ristorante londinese e che, fidatevi, vi farà esplodere il cervello.
Il secondo motivo è che Gill, ora autrice a tempo pieno con altri due libri all’attivo, e giudice di Junior Bake Off UK, ha deciso molto presto che avrebbe fatto sentire la sua voce contro l’ambiente tossico della ristorazione.
«I wanted to cut the bullshit: I didn’t want people to go through the shit kitchens to get to the good ones»
Senza nascondere i fallimenti e le incertezze del proprio percorso lavorativo, né gli stereotipi e i pregiudizi che riguardano il lavoro di pasticceria, Gill racconta di aver lavorato in posti orrendi, senza nessun rispetto per i dipendenti, ed essere poi approdata al St.JOHN in un contesto completamente diverso, dove la gentilezza e la collaborazione erano la norma.
Questo l’ha spinta a creare Countertalk, una piattaforma con lo scopo di promuovere ambienti di lavoro sani, che offre una serie di importanti risorse per chi voglia lavorare nel settore dell’ospitalità: liste di ristoranti virtuosi che hanno a cuore il benessere del personale, articoli sugli incidenti in cucina, sul bullismo, su come leggere la busta paga.
«Lots of people I know want to become a pastry chef, or think they do. But being a pastry chef isn’t for everyone, and that’s not a bad thing»
È una food writer che bisogna conoscere, perché tratta argomenti zuccherosi in modo molto potente, e tra le pagine rosa confetto del suo manuale, nella chiarezza delle ricette, è individuabile anche la forza del suo messaggio.
3. Ada Boni, Il Talismano della felicità, Editore Colombo, 1925
«Uno dei pregi, universalmente accordati al nostro Talismano, è di non stancare le lettrici con fastidiosi rimandi nella trattazione delle materie e degli argomenti»
Don’t mess with Ada.
La primissima volta che ho preso in mano una penna per appuntare un’idea per una newsletter è stato con il Talismano vicino. Forse stavo cercando la ricetta del baccalà in umido, o provavo a risalire al modo in cui mio padre faceva il capitone al forno, di cui non è rimasta alcuna traccia, e mi è venuto spontaneo ripensare a quanti ricordi della mia vita culinaria familiare fossero legati a questo libro.
È un tomo talmente iconico, e talmente raccontato, che mi ero decisa a non parlarne mai: farlo mi sembrava ridondante, scontato. Ma stavolta parliamo di trovare la propria voce, e per farlo credo sia imperativo ripartire dalle proprie basi. E poi come si può ignorare una donna che negli anni ’20, in una pletora di uomini, ha alzato con determinazione la sua voce, consigliando generazioni di sue pari, senza mai essere materna o condiscendente, ed è ancora un punto di riferimento della cucina italiana, 100 anni dopo?
Sulla vita di Ada Boni, nata a Roma nel 1891, potete leggere questo articolo della rivista Marie Claire o questo numero di
, e vi sorprenderete forse nello scoprire che nel 1915, in un momento di grande incertezza politica in Italia, Ada Boni decise di lanciare una rivista «di economia domestica per le signore» intitolata Preziosa, da cui scaturì quella che oggi definiremmo una community talmente forte che le permise, dieci anni dopo, di pubblicare Il Talismano della felicità, finanziandolo interamente con i preordini.«[…] questo nostro manuale, che vuole essenzialmente essere una guida pratica per le donne di casa»
Ada Boni parla alla donna medio-borghese, le promette che imparando a cucinare si terrà il marito, ma non le propone un modello inarrivabile di donna e cuoca perfetta. I suoi sono consigli concreti, suggerisce scorciatoie, insegna a riconoscere ed apprezzare le materie prime, oltre che a cucinarle, non si perde troppo in chiacchiere e mantiene sempre un occhio alla spesa, come fanno ogni giorno le sue lettrici.
L’approccio è molto diverso da altri capisaldi della cucina italiana, come l’Artusi, ad esempio, il cui autore, in quanto gentiluomo e gastronomo, candidamente ammetteva di non saper cucinare ed era sempre molto grato alle signore che gli spedivano le loro ricette.
Ada Boni invece, in dichiarata polemica con Artusi, cucina per la sua famiglia e si rende conto anche di come cambiano le esigenze delle donne a cui si rivolge, riadattando il contenuto del libro, edizione dopo edizione, per mantenerlo utile e contemporaneo.
L’edizione che consulto è del 1971 (ne ho una più vecchia, di mia nonna, solo per esposizione, guai a chi la tocca!) e parla ad una donna molto diversa da quella che frequentava i suoi corsi di economia domestica, una donna che ha meno tempo, ma anche più strumenti per rendere piacevole il cucinare.
Boni suggerisce che il capitolo sulle marmellate e conserve sarà più utile alle sue lettrici che vivono in campagna «che hanno larga disponibilità di tempo, di spazio, e di materia prima» e ricorda che i dolci, per quanto siano la parte più piacevole del lavoro di cuoca, sono una rottura di scatole inutile se già hai poco tempo e «possono essere ordinati, con più vantaggio e con più tranquillità d’animo, al pasticciere di fiducia».
Non so se l’entità dell’influenza e il valore del lavoro di Ada Boni sia compreso e celebrato abbastanza. Alberto Capatti e Massimo Montanari scrivono ne La cucina italiana, storia di una cultura (Laterza, 2005) parlando del titolo del libro: «Il Talismano della felicità evoca il culto per la buona tavola e per la riuscita matrimoniale. È opera di Ada Boni il cui busto marmoreo, eseguito dal cavalier Boni, si ritrova interfogliato, a partire dalla quinta edizione, a testimonianza che il sogno delle cuoche di passare all’eternità dell’arte non è mai tramontato». Probabilmente sono io, ma ci sento qualcosa di poco lusinghiero.
Forse non cucinerete da questo libro, o forse, come me, sarà il primo che prenderete in considerazione per replicare ricette tradizionali, in ogni caso, la voce di questa grande autrice continuerà a dire la sua con schiettezza e a sostenere le donne in cucina molto più di quanto si pensi.
«Avverte un detto francese che la donna è cuoca in cucina, regina in salotto, ambasciatrice a tavola. Ma aggiungiamo noi, è bene che da tutti si sappia che ciascuna di queste attribuzioni richiede alla padrona di casa, per essere all’altezza dei suoi compiti, assidue e costanti cure»
Diglielo, Ada.
Questo numero è dedicato a chi prova a grattare con un rastrello la superficie delle cose, e con coraggio tira fuori la propria voce.
Ci vediamo giovedì prossimo!
Non è che adesso smetti di scrivere? 🫣
Bentornata, è bello rileggerti.
Che Sfoglia non parli di cibo a me piace, è il motivo per cui sono qui. Io non seguo nessun'altra newsletter sul cibo, non ho mai guardato una trasmissione sul cibo, non compro libri di ricette e non adoro cucinare (cucino per nutrirmi con cura). Ma qui trovo storie, che siano legate al cibo o ai supereroi, è quello che cerco :)