Sfoglia 3 libri di cucina di posti in cui ho mangiato a Londra
viaggi, storia e gastronomia inglese
Secondo il Times, nel 2020, nel Regno Unito sono stati pubblicati più di 5.000 libri di cucina, ma solo 556 di questi hanno venduto più di 100 copie.
L’editoria di cucina in UK è un mercato che produce titoli a raffica: dal libro del grande chef, a quello del più piccolo venditore ambulante, è abbastanza difficile mangiare in un posto che non abbia anche un ricettario a suo nome.
Se da alcuni punti di vista questo potrebbe considerarsi un’esagerazione, per me è una specie di miraggio, l’opportunità di rivivere l’esperienza gastronomica nelle pagine di un libro, di ricreare piatti che la nostra memoria collega a momenti di gioia e scoperta, poter richiamare le sensazioni provate una volta tornati a casa, o studiare prima il luogo che si visiterà, attraverso il racconto del cibo.
L’abbiamo detto tante volte che i veri libri di cucina non sono solo elenchi di ricette, sono la porta di ingresso del luogo che ci mostrano, sia esso un luogo fisico, la cucina di un ristorante o quella di casa di una food writer, o un luogo mentale, un’epoca storica, un insieme di ricordi.
Un’offerta vasta come quella del Regno Unito non è sicuramente tutta allo stesso livello, ma i tre libri che ho scelto oggi sono legati a tre ristoranti che meritano assolutamente una visita doveste trovarvi a Londra.
Ho scelto questi tre in particolare, non solo perché ho mangiato benissimo, ma perché sono libri eccezionali, a prescindere dal luogo a cui sono legati: spiegano tantissimo della cultura gastronomica britannica, della società e delle influenze di un paese che ha molto da dire sul cibo, anche se, forse, abbiamo sempre pensato il contrario.
Questi sono 3 libri di cucina di posti in cui ho mangiato a Londra.
1. Shamil Thakrar, Kavi Thakrar, Naved Nasir, Dishoom, “From Bombay with Love”, Bloomsbury Publishing, 2019
«When people break bread together, barriers break down»
Togliamoci subito il pensiero: questo libro è esteticamente stupendo. La rilegatura è in parte in tessuto, con il titolo impresso in oro sulla costa, le pagine sono di carta spessa e in regalo c’è una mappa. Una mappa illustrata dell’area sud di Bombay, perché, come indicato chiaramente nel sottotitolo, questo non è un semplice libro di cucina, ma anche una «guida di Bombay estremamente soggettiva con mappa».
Togliamoci anche un altro pensiero: perché Bombay? Considerando che il vecchio nome coloniale della città è stato ufficialmente abbandonato nel 1995, mi ha fatto effetto vederlo usare con orgoglio in un libro che difende l’unicità della cultura di Mumbai e rievoca luoghi tradizionali che stanno scomparendo. La risposta che danno gli autori è la nostalgia.
La nostalgia è la chiave di tutto: è il motore che ha spinto Shamil Thakrar, con il cugino Kavi e lo chef Naved Nasir, ad aprire il primo ristorante Dishoom a Covent Garden nel 2010, è la nostalgia che ha ispirato questo libro così particolare, che vuole essere una celebrazione di quella «città portuale fatta di migranti in cerca di fortuna, che portano con loro una miriade di culture e credenze e storie e cibo» intrecciando il tessuto sociale di un luogo folle e cosmopolita che, per loro, sarà sempre Bombay.
«Ready your senses, for they are about to be assaulted»
La particolarità di questo libro è l’essere strutturato come un tour di un giorno del sud di Bombay, una giornata gastronomicamente impegnativa, che non lesina sugli snack e prevede 3 cene, passando per tutti i luoghi che hanno ispirato le ricette che compongono i menù di Dishoom, e che troverete nel libro.
È una versione concentrata del “Bombay Bootcamp” l’esperienza offerta a chi lavora nei ristoranti da più di 5 anni, per ringraziare e coinvolgere ancora di più il personale, un aspetto a cui i proprietari tengono moltissimo e che ha portato questo gruppo di ristoranti, presente ormai in diverse città del Regno Unito (Londra, Edimburgo, Manchester e Birmingham) ad essere al quarto posto tra le 100 migliori aziende in cui lavorare in UK.
Il personale di Dishoom è più felice di quello di altri ristoranti, è pagato di più, è gratificato, è formato per prendersi cura della clientela e devo dire che ho potuto riscontrarlo nel servizio.
Il progetto nasce da una riflessione di Shamil Thakrar (neofita assoluto della ristorazione, laureato ad Oxford e con un MBA alla Harvard Business School) su come la rappresentazione della cultura indiana nella vita britannica fosse diventata ormai un cliché, un ritratto confuso di palazzi regali dell’epoca dei Raj, Bollywood, curry house e cricket.
La consapevolezza che ci fosse molto di più della cultura gastronomica indiana che doveva essere raccontato porta Thakrar a voler omaggiare i caffè iraniani di Bombay, una realtà poco conosciuta, sinonimo di diversità e fusione culturale, che svolsero un ruolo fondamentale nell’avvicinare persone di razze e religioni diverse in un periodo di grande conflitto sociale.
«When you have decided what you’d like to eat, you can than savour it in the open air, surrounded by all kinds of Bombay life, the flavours of buttery pau bhaji or spicy bhel made doubly delicious by the view of the curving golden bay as the sun goes down»
Il tour parte presto, alle 8 di mattina, quando la città è più calma, l’aria leggermente più fresca e lo stomaco pronto per una colazione piccante e burrosa. Si parla di architettura, di storia, di società e cultura, si parla ovviamente di cibo, raccontato con grande generosità. Avere una spiegazione dettagliata, prima di ogni ricetta, dà tutto un altro sapore ai piatti; la scelta di cosa cucinare, tra stufati di carne succulenti, piatti di legumi speziati, morbidi naan, sarà più consapevole e farà superare molti preconcetti sulla cucina indiana.
In questo libro non si mangia nessun chicken tikka masala, a quanto pare il piatto “indiano” più amato in Gran Bretagna, che nulla ha a che fare con la ricetta del libro, perché tikka significa semplicemente “pezzo” per cui è inutile aspettarsi quello spiedino di carne rosso fuoco che ci sarà stato sicuramente servito. Non si beve nessun chai tea, perché il termine chai significa appunto tè ed è quindi preferibile chiamare questa bevanda imprescindibile per gli indiani in base alla sua tipologia, come il masala chai, speziato e dolce, proposto da Dishoom.
«Admittedly, the city is not always easy to love. It is the most utterly imperfect of cities; it is full of the best and the worst, the extremes of human existence cohabiting cheerfully, hemmed in tight against each other by the ocean on three sides»
I ristoranti Dishoom sono stati pensati e studiati fin nell’ultimo dettaglio, con un assetto certamente imprenditoriale, ma con in mente l’obiettivo ammirevole di ridefinire il modo in cui le persone pensano e sperimentano il cibo indiano. Il design, l’arredamento dei ristoranti è curato fino all’ultima piastrella diamantata del bagno, fino all’ultimo ritratto seppia di famiglie indiane appeso alle pareti. I camerieri sono gentilissimi e sorridenti e il cibo è davvero ottimo.
Credo che per fare un’operazione commerciale di successo servano grandi capacità, e per farne una davvero meritevole di attenzione serva anche grandissima cura, e tutto questo si vede chiaramente tra le pagine del libro, esattamente come seduti su un divanetto nel ristorante.
2. Calum Franklin, The Pie Room, Bloomsbury Publishing, 2020
(ediz. italiana The Pie Room, tradotto da Silvana Mancuso, Guido Tommasi Editore, 2022)
«Sometimes there are moments at work where I stop and giggle at what I actually do for a living, whether it’s running around a toyshop looking for parts to make a mechanical pie that has been commissioned or hiding away in a room in the British Library looking at ancient recipes»
Ho solo un problema con questo libro. Nonostante parli di un luogo speciale e lo mostri con foto stupende, la copertina e la rilegatura sono deludenti, un semplice cartonato su cui rimangono impresse le ditate e che si graffia facilmente. (Ve l’avevo spiegato che ho una fissazione, no? Non vi stupite per favore).
Ma torniamo a noi. The Rosewood è un lussuoso albergo del centro di Londra, nel quartiere di Holborn, un edificio barocco di epoca edoardiana che ospita al piano terra la Holborn Dining Room, elegante brasserie inglese (lo so, detta così sembra una contraddizione in termini e in qualche modo lo è).
Incastrata in fondo alla sala da pranzo, in un angoletto del ristorante, con una vetrina affacciata su strada, c’è la Pie Room, una piccola cucina vittoriana fatta di marmo, ottone e rame, che la sera risplende nel riflesso ambrato di tutti gli stampi antichi per pie esposti negli scaffali, e sforna ogni giorno centinaia di quei meravigliosi scrigni di bontà.
«Embracing your own food culture after years and years of cooking others’ is liberating, and knowing you can play a little part in improving its reputation is exciting»
Le pie sono un classico della cucina britannica: nate in epoca romana, erano inizialmente un modo per conservare e mantenere morbida la carne, come dei tupperware di pasta dura e compatta. La geniale idea di poter mangiare il contenitore insieme al contenuto apre la strada ad un’infinita serie di combinazioni: steak and ale probabilmente la più famosa, ma anche hand raised pork pie, in cui non si usa una teglia, ma l’impasto viene formato a mano intorno al ripieno, shepherd’s pie che ha solo una copertura di ciuffi di patata o pasties, tasche chiuse ai bordi come piccoli calzoni.
Questo cibo rustico, semplice e gustoso diventa una presenza immancabile in ogni pub, nei cesti da picnic e nei pie shop (chi ricorda Mrs.Lovett che “ricicla” la carne delle vittime di Sweeney Todd come ripieno delle sue pie?) ed è un’altra espressione di una cultura condivisa e apprezzata ad ogni livello della società.
Quando Calum Franklin diventa executive chef della Holborn Dining Room ha il desiderio di misurarsi con la propria tradizione, con i fondamentali della cucina britannica e portare il mondo delle pie, da quelle più semplici a quelle ornate da intricati intagli pasta, ad un pubblico più ampio.
La risposta è molto positiva e porta alla decisione di costruire un luogo di devozione per questo cibo, un luogo disegnato in ogni dettaglio da Franklin, che possa servire sia il ristorante che i clienti sulla strada attraverso un pie hole: due piccole finestre da cui durante il giorno si possono ordinare e ritirare le pie per andarle a mangiare comodamente in un parco, o in qualunque altro luogo (visto che gli inglesi sono in grado di mangiare ovunque).
«A fish pie should never be de-constructed. It should never be neat and tidy. It should always be homely, rustic and even messy - that is what makes it so appealing and get the taste buds firing when it arrives at the dining table»
Nel libro Franklin vuole raccogliere ricette che siano facilmente riproducibili a casa, da chiunque e senza attrezzature particolari (ed è una possibilità concreta visto che è stato tradotto in italiano). I procedimenti non sono la copia esatta delle preparazioni del ristorante, ma con grande intelligenza sono adattate per ottenere il risultato più simile possibile ai capolavori della Pie Room.
È un libro che va subito al sodo, abbastanza tecnico ma di facile comprensione, che spiega benissimo le tecniche di base e mi ha aperto un mondo su come foderare la teglia con l’impasto. È un ottimo ricettario, tutto da cucinare, perfetto per l’arrivo dell’autunno, che non a caso ha vinto un Fortnum & Mason Award come migliore libro di esordio nel 2021.
«For centuries, pork pies have firmly held a place in British food culture as a way to use up cuts of pork less desirable than, say, fillet or loin, but truly delicious when handled with care»
Aspettate che le temperature scendano un po’ e dedicatevi alla pie con carne e Stilton, la versione del libro di quella che ho ordinato al ristorante, mangiatela calda, con il ripieno che ustiona la lingua accompagnata da una pinta di Young’s e comprenderete perfettamente il messaggio di Calum Franklin, che una tradizione culinaria britannica esiste ed è forte, e che le pie, bellissime, lucide e piene di sapore, possono far parte, senza sfigurare, di un menù che propone anche caviale e frutti di mare.
3. Olly Pudney, Joe Swiers, The Bull & Last, A Pub and Coaching Inn, Etive Pubs Ltd, 2020
«[…] this is the best-located pub in London. The Heath is right there. The proper, living Heath. Not the posh bit over in Hampstead, with is chain restaurants and day-trippers, but the bit where Londoners actually live»
Ho una predilezione per il Nord di Londra e un amore sconfinato per Hampstead Heath, il parco gigantesco di oltre 300 acri (non mi chiedete la conversione in km²) che è una campagna dentro la città, con colline, laghetti in cui fare il bagno e zone incolte perfette per avventurose passeggiate con i cani.
The Bull & Last è un pub con una storia centenaria, rilevato da Olly Pudney e Joe Swiers nel 2008 e recentemente rinnovato e trasformato in un Inn con 7 splendide camere. Si trova proprio di fronte al parco, scendendo da Parliament Hill, uno dei luoghi più suggestivi per una vista spettacolare sulla città. È un pub molto particolare, che ha rielaborato la propria storia e la propria tradizione gastronomica, e questo libro ne è una celebrazione.
Le public house (pub) sono l’esempio più rappresentativo dell’identità della popolazione inglese: sono frequentati da persone di tutte le età, di tutte le classi sociali e livelli di educazione, offrono a chiunque rifugio e conforto, nutriente cibo caldo e una pinta fresca, e frequentarli è un’abitudine che fa tutt’ora parte della quotidianità, in modo non dissimile dal nostro caffè al bar.
Ci sono i boozer, pub in cui si beve solo, che non cucinano ma offrono snack più o meno sostanziosi, quelli che non accettano bambini e quelli perfetti per il Sunday Roast, il pranzo domenicale con un menù speciale a base di carne arrosto, Yorkshire pudding e le patate al forno più buone che potrete mai assaggiare (è perché probabilmente sono cotte nel grasso di qualche animale, ma io non vi ho detto niente).
Ogni inglese ha il suo local, il pub di quartiere in cui passa almeno una volta a settimana per una birra e una chiacchierata con i proprietari o con gli altri regular, i frequentatori abituali. Ma negli anni sono stati tanti i cambiamenti che hanno interessato questi luoghi di aggregazione, e la cultura dei pub si è in qualche modo modificata.
Negli anni ’90 sono comparsi i primi gastropub, che hanno provato ad elevare l’offerta culinaria e affinare l’ospitalità e il servizio, nel 2007 è entrato in vigore il divieto di fumare all’interno che, per quanto giusto, ha rivoluzionato il modo di fruire questi luoghi; oggi un tenner (la banconota da 10 sterline) non copre più il prezzo di due pinte e i barattoli delle mance sono scomparsi perché i pagamenti sono sempre e ovunque contactless.
«Pubs have touched so many hearts. You never forget your first pint in a pub»
Su questo sfondo i ragazzi che hanno rinnovato e aperto l’attuale The Bull & Last hanno provato a dipingere un nuovo ritratto del pub, più contemporaneo e versatile, in grado di accogliere chiunque, con un’offerta gastronomica di altissimo livello e un ambiente curato, ma rustico, come se ci si trovasse nei Cotswolds o nel Wiltishire, senza in realtà essersi mossi dalla città.
Il libro è un tomo enorme e racconta anche la storia di una delle aree più inaspettate e belle di Londra. Ci sono le illustrazioni d’epoca, le planimetrie e le foto che mostrano come il volto del pub sia cambiato nel corso degli anni, pur mantenendo il suo ruolo centrale per la comunità.
È un dietro le quinte della vita frenetica di questo pub, con la storia della sua ristrutturazione e delle scelte di arredamento, il piano dei tavoli, i racconti e gli aneddoti sulla vita quotidiana di un pub inglese, sui suoi clienti, umani e anche canini. The Bull & Last ha, infatti, una serie di piatti pensati per i cani (le ricette sono nel libro) prelibatezze gourmet che gli hanno valso il titolo di “miglior dog pub di Londra” da parte del Times.
«We enjoy cooking with ingredients that people may not always see on menus or expect to see in a local pub set-up, and we are all about digging up the past and bringing ingredients back to life»
Le ricette riproducono esattamente i piatti del menù, spiegati nei minimi dettagli, senza trattenere alcun segreto. Gli abbinamenti sono più moderni e gli ingredienti contaminati rispetto ad una classica cucina da pub, ma non mancano i piatti basilari come le Scotch Eggs, uova barzotte, avvolte in un trito di maiale e salsiccia di maiale, poi passate nel pangrattato e fritte.
Qualunque sia l’influenza si nota sempre rispetto per gli ingredienti e il desiderio di rendere felici gli ospiti, anche affrontando territori inesplorati come una carta dei vini più ragionata e l’offerta del vino alla spina, il servizio della colazione e l’introduzione di una splendida macchina da caffè cromata, che permette l’enorme soddisfazione di ordinare un espresso dopo un roast che potrebbe mettervi alla prova.
Come ho accennato su Instagram Settembre sarà “UK Month” su Sfoglia e per me non poteva esserci argomento migliore per inaugurare sia un mese tematico che la novità delle tre uscite della newsletter.
Sarete, quindi, costretti a rileggermi già la prossima settimana, con il numero dedicato a suggerimenti e link, ovviamente a tema Londra e Regno Unito. Cheers, mates!
Adesso qui la mia domanda sorge spontanea: è arrivato prima il libro, o l'esperienza gastronomica? Cosa ha portato a cosa?
Mi sono goduta tantissimo questa lettura, ma mi hai fatto venire una voglia di Londra incontenibile!
Sai che sarebbe bello andarci insieme? :D
Non avevo mai letto la traduzione di Scotch Eggs come "uova barzotte", non so da dove venga ma mi ha fatto impazzire 😀