Sfoglia (e guarda) The Bear
numero speciale dedicato alla serie di Hulu, su Disney+ dal 5 Ottobre
«He stopped letting me into the restaurant a couple years ago. He just cut me off cold. And that, that hurt, you know. And I think that just, that flipped a switch in me where I was like “Okay, fuck you, watch this”. And because we had this connection through food and he had me feel so rejected and lame, and shitty and uncool, I made the plan where I was gonna go work in all the best restaurants in the world. You know, like, like, I’m gonna go work in real kitchens. Like, fuck mom and dad’s piece of shit, right? And it sound ridiculous, you know, me saying that now, but that’s, that’s what I did. And I got the shit kicked outta me. And I separated herbs and I shucked oysters, and clams and uni. And I cut myself, and I got garlic and onions and peppers in my fingernails and in my eyes, and my skin was dry and oily at the same time. I had calluses on my fingers from the knives, and my stomach was fucked, and it was everything»
Il cibo può essere tutto. Può essere fonte di gioia, veicolo di unione, un modo per dimostrare l’amore che proviamo per gli altri, per conoscersi, per prendersi cura. Il culto del cibo può essere una passione meravigliosa, ma può anche essere un’arma, spesso rivolta contro la persona stessa che la brandisce. Il cibo ha a che fare con le nostre pulsioni viscerali e profonde, ha implicazioni in ogni aspetto della nostra vita, e con l’attenzione che ha ricevuto nell’ultimo decennio, è chiaro che sia diventato un argomento privilegiato per la letteratura, il cinema, la televisione.
La serie The Bear non fa eccezione e mette il cibo al centro della narrazione, ma la novità, stavolta, è che il collegamento forte è con la salute mentale, con le dipendenze, fisiche ed emotive. In quasi ogni puntata percepiamo l’ansia, la pressione psicologica che si affronta in cucina, ci viene mostrato il mondo della ristorazione di alto livello, e quello dello street food, come luoghi carichi di tensione, una tensione schiacciante, che spezza le aspirazioni, che plasma le persone e sbriciola gli entusiasmi.
Dopo l’uscita della serie in America, che ha scatenato recensioni entusiaste ovunque, sono state pubblicate da “bon appétit” alcune testimonianze di persone che lavorano, o hanno lavorato, in cucine di alto livello, che raccontano di aver dovuto fermare la riproduzione di qualche puntata, perché emotivamente provati al ricordo di momenti che loro stessi avevano vissuto, emozioni che la serie riusciva a risvegliare nitidamente, rendendo troppo dolorosa la visione.
In questa serie c’è tutto, c’è un protagonista, Carmy (Jeremy Allen White), complesso e sfaccettato, che ha molto di letterario, ci sono comprimari perfettamente delineati, c’è una metropoli affascinante e un po’ oscura, c’è il cibo e ci sono, addirittura, tanti libri di cucina che, lungi dall’essere messi lì a caso come semplici props, contribuiscono a svelarci i personaggi, e la storia. Con Alessia abbiamo scoperto di condividere gli stessi gusti cinematografici e dopo il suo messaggio “Questa serie devi vederla, è perfetta per te” non ho esitato un secondo e, come da lei immaginato, sono rimasta folgorata fin dalla prima puntata. È per questo che le ho chiesto di aiutarmi a raccontarla, di usare la sua non comune sensibilità per le opere letterarie, la sua capacità di guardare in profondità nelle storie, per mostrarci su chi è incentrato questo racconto imperdibile.
Il mio contributo? Certo, avendo a disposizione un saggio di Alessia Ragno, mi sarei potuta anche fermare qui, a godermelo prima dell’ennesimo rewatch della serie, ma, come vi dicevo, l’argomento libri di cucina non può essere ignorato e vi parlerò proprio di questo, in modo che siate pronti a captare tutti gli indizi, lasciati tra un frame e l’altro a vantaggio di noi “malati” di cucina.
Devo, però, avvisarvi: da qui in poi ci saranno alcuni spoiler, non sugli snodi più importanti della storia, ma scoprirete sicuramente degli elementi della serie. Se non vi sentite pronti ci rivediamo dopo che l’avrete letteralmente divorata (troverete gli otto episodi domani, 5 Ottobre, su Disney+).
The Bear
di Alessia Ragno
«Restaurants are emotional places» scrive lo chef statunitense Daniel Patterson su Esquire nella migliore recensione di The Bear che abbia letto sulla stampa straniera, un compendio dell’esperienza da chef che fonde il personale di Patterson con il riflesso che ne coglie il personaggio di Carmen “Carmy” Berzatto. Il cuore di quest’analisi è sia la verità incontrovertibile secondo cui la serie targata Hulu è una rappresentazione fedele del lavoro nella ristorazione, con tanto di gergo specifico studiato in ogni minuzioso dettaglio dagli autori, ma è anche un’opera narrativa su trauma e complessità umana. Carmy stesso non è molto distante, per spessore di scrittura, da un vero e proprio personaggio letterario, e con lui Sydney, Cousin Rich e Marcus, i personaggi migliori della prima stagione.
Intanto la costruzione del personaggio: l’eco di un giovane Bruce Springsteen e quel tocco di italianità nell’accezione più laterale, quella degli italoamericani che per un paio di nonni o bisavoli italiani ottengono il passaporto e un patrimonio di ricette che con la nostra tradizione hanno pochi punti di contatto. Ma Carmy è anche T-shirt bianca d’ordinanza, tatuaggi carichi di significato, una mascolinità che cerca di divincolarsi dalla tossicità in cui si è formata per scendere a patti con le proprie debolezze.
È il trauma il motore principale di Carmy, quello legato alla perdita del fratello Michael, morto suicida, e la conseguente perdita dell’identità. Da chef promessa a titolare del sandwich shop del fratello, tra conti misteriosi e sorprendenti riscatti. Una mascolinità che si divincola anche dal binomio col sesso, perché The Bear dimostra che non c’è bisogno di una relazione per elevare i personaggi, e sceglie di dare loro umanità solo nel trauma. In questo senso, The Bear è specchio della realtà che viviamo, intrisa di trauma e della sua incomunicabilità, caratteristica di cui Carmy è campione. Ci vogliono otto puntate per ascoltare il primo monologo di Carmy sul suo vissuto; il risultato sarà magnetico, uno dei migliori pezzi di tv scritta da un uomo degli ultimi anni, che dimostra di poter raccontare uomini dotati di spessore, nuanced come dicono in inglese, che resistono fino al punto di rottura, ma poi rovinano come è giusto che sia, perché il peso del suicidio di un fratello non è un vestito da eroi, bisogna spezzarsi per rinascere, o perlomeno per sopravvivere.
E Carmy, con la sua t-shirt d’ordinanza e i capelli in perenne disordine, ritorna a casa dopo una marea di “Yes chef!” per mantenere rispetto e distanze da collaboratrici, collaboratori, familiari e pubblico, e rovina sul divano dopo aver cenato con un peanut butter jelly sandwich e una lattina di Coca Cola. Talentuoso, ma incrinato come noi di questi tempi, la giornata equamente divisa tra rimuginio, ricordi e cibo. È proprio il cibo a costituire il ponte con un futuro possibile, la stessa regia sembra voglia farlo intuire con i close-up sui coltelli che tagliano, i cibi che rosolano, la carne che intiepidisce fuori dal forno, per contrastare la frenesia, la rabbia, le urla e i sogni che si trasformano in incubi anche a occhi aperti. Solo in Sydney il cibo fa incursioni nei suoi flash a occhi aperti, chissà che storia avrà da raccontare nella seconda stagione.
È vero, allora, che The Bear è uno show sulla cucina, sul rapporto con il cibo e le dinamiche schizoidi di un ristorante, ma è anche il racconto del lutto dopo un suicidio, dei ricordi che perseguitano, dei tic che mangiano i nervi (basta vedere come Carmy scuote nervosamente il cucchiaio tra indice e pollice alla puntata 7), dell’incapacità di tradurre quel trauma e l’ansia conseguente in parole.
Nell’ultima puntata, durante l’ennesimo tentativo di riconciliazione con la sorella Sugar, Carmy si confessa e le chiede scusa, fino ad allora non le ha mai chiesto come stesse dopo la perdita del fratello. E mentre lo fa dice:
«I guess all the time I feel like I’m kind of trapped because I can’t describe how i’m feeling»
E se nell’inconscio definisce la sua famiglia «dysfunctional nightmare of a household», se le emozioni sono un grande casino e comunicare col caotico Cousin Rich sembra ancora impensabile, c’è riconciliazione soprattutto attraverso il cibo: affettato, scottato, saltato in padella, dorato di burro, abbracciato dal pane, il cibo è la cura e la riconciliazione col mondo. E tutto quello che resta da fare, poi, è commuoversi insieme con “Let down” dei Radiohead, che accompagna Carmy, o almeno così si spera, verso la meritata guarigione.
The emptiest of feelings
Disappointed people
Clinging onto bottles
And when it comes it's so so disappointing
Let down and hanging around
Crushed like a bug in the ground
Let down and hanging around
I libri in The Bear
di frdb
La verità in questa serie è molto importante. La ricostruzione realistica e veritiera di una cucina professionale, dalla terminologia alle attrezzature, alla manualità degli attori, precisa fino al modo di impugnare un cucchiaio, era l’obiettivo principale del creatore della serie, Chris Storer, che ha preteso una rappresentazione più autentica possibile del mondo della ristorazione. Tutti gli attori, infatti, sono stati istruiti presso scuole di cucina, Jeremy Allen White, il protagonista, si è sottoposto ad un vero training in un ristorante stellato in California e Lionel Boyce, che interpreta Marcus, è stato addirittura impegnato in uno stage presso Hart Bageri a Copenhagen.
Attraverso la veridicità dell’esperienza si ottiene la verità delle emozioni e il coinvolgimento dello spettatore è inevitabile, risucchiato in questo universo sporco e caotico del sandwich shop di famiglia di Carmen “The Original Beef of Chicagoland”, o nell’asettico e angosciante ordine del ristorante stellato da cui proviene. Ma se lo spettatore è un appassionato di cucina, di storie legate al cibo, questa verità si dipana anche nei dettagli, disseminati lungo tutti gli otto episodi, tra cui colpisce inevitabilmente la presenza di molti libri di cucina.
I libri svolgono funzioni differenti. Nel primo episodio Richie tira fuori con sdegno, da uno scaffale, l’imponente volume di “Noma, Time and Place in Nordic Cuisine” di René Redzepi (Phaidon, 2010) e quel libro elegante, con la minimale copertina grigia, è l’emblema di tutto quello che lui non capisce, e quindi disprezza, che lo mette a disagio e lo allontana dal suo personale rapporto con Michael, il morto, che forse sente più vicino deridendo Carmy e i suoi successi.
«This shit right here, made you pompous and delusional and a fucking gayrod! These guys they thought you how to cook with ants, but none of these fuckwards taught you how to make a pasta»
Dal volume, gettato a terra, cade tristemente l’attestato del James Beard Award ricevuto da Carmy come “Rising Chef of the Year” un semplice foglio piegato che, agli occhi dei suoi nuovi collaboratori in cucina, vale meno di niente.
Un altro libro entra prepotentemente nella linea narrativa di uno dei personaggi, Marcus, il timido fornaio, passato dal retro di un McDonald’s alla planetaria scassata del ristorante, in cui si occupa, con mediocri risultati, di preparare il pane per i sandwich. Lui è il più sensibile di tutti al fascino dell’eccellenza esercitato da Carmy, il più curioso di dove si possa arrivare con lo studio e l’esercizio, il più pronto a farsi ispirare, tanto da tappezzare la sua “stazione” con foto di dolci meravigliosi, e iniziare a sperimentare attraverso “The Noma Guide to Fermentation” di René Redzepi e David Zilber (Artisan Books, 2018).
Ma la vera grande sorpresa arriva nell’ultimo episodio. Carmen si sveglia all’improvviso da uno dei suoi frequenti incubi (al telefono con la sorella Sugar aveva in precedenza rivelato con tranquillità «I’m fine, I just have trouble breathing sometimes and I wake up screaming») la telecamera indugia qualche attimo su di lui per poi girare e inquadrare una parete, su cui scopriamo un’inaspettata biblioteca culinaria: pile di libri di cucina, che dal pavimento arrivano alla cornice di legno della finestra.
Non sono sicuramente stata l’unica ad aver messo in pausa per fare uno screenshot e potermi riguardare bene la selezione di titoli, anzi, dopo averlo fatto ho trovato questo articolo di Eater in cui lo scenografo, Eric Frankel, ha fornito alla giornalista, che da brava nerd aveva fatto la stessa cosa, l’elenco completo di tutti i libri di cucina che compaiono nella serie (anche se ne ho notati alcuni nella scena che non sono elencati), raccontando di averli selezionati in base ai libri preferiti di chef famosi, e anche controllando le bacheche delle scuole di cucina, per vedere quali libri trovava più utili chi stava studiando per diventare cuoco.
È infatti una selezione particolare, con libri molto più pop che tecnici, che si potrebbero trovare nelle case di tanti appassionati di cucina. Paradossalmente i libri con l’approccio più tecnico/scientifico, e cioè i cinque volumi di “Modernist Cuisine, Art and Science of Cooking” di Nathan Myrvold, Chris Young e Maxime Bilet (The Cooking Lab, 2011), una mastodontica opera di 2.438 pagine, venduta al prezzo di 625 dollari, si vede impietosamente poggiata su un mobiletto, nell’incasinatissimo ufficio sul retro del sandwich shop.
Nella sua stanza invece, accanto al materasso poggiato a terra, Carmy tiene libri che raccontano la storia di un giovane appassionato, che ha iniziato magari studiando quei classici presenti in ogni famiglia americana come “The Joy of Cooking” di Irma Von Starkloff Rombauer, Marion Rombauer Becker, John Becker e Megan Scott (Scribner, 2019) omologo di quello che per noi è “Il Talismano della felicità”, e Marcella Hazan con “Essentials of Classic Italian Cooking” (A. Knopf, 1992) la donna che ha insegnato al mondo anglosassone la vera cucina italiana, tutt’ora un riferimento per i grandi cuochi contemporanei.
Si vede l’enciclopedia “Larousse Gastronomique” in una vecchia edizione, presumibilmente comprata usata, e i manuali dei grandi chef francesi: “The Escoffier Cookbook: a Guide to the Fine Art of Cookery” di August Escoffier (Clarkson Potter, 1941) e “Institute Paul Bocuse Gastronomique” di Institut Paul Bocuse (Hamlyn, 2016) e osservando questi libri sembra di poter seguire o immaginare il percorso che ha fatto da uno all’altro, muovendosi attraverso l’Europa, e attraverso gli anni, con altri classici, stavolta inglesi, come l’immancabile “French Country Cooking” di Elizabeth David (Penguin, 2001) e “Food in England: A Complete Guide to the Food that Makes Us Who We Are” di Dorothy Hartley (Piatkus, 2009).
Carmy possiede anche una selezione di letteratura gastronomica con Bourdain (impossibile immaginare uno chef odierno maschio, bianco, che non l’abbia letto) ma anche il saggio di Micheal Pollan “The Omnivore’s Dilemma” (Penguin, 2007) che ha aperto un importante dibattito sulla scelta degli alimenti di cui nutrirsi. C’è il bellissimo memoir di Gabrielle Hamilton “Blood, Bones and Butter: the Inadvertent Education of a Reluctant Chef” (Chatto & Windus, 2011), che trovate tradotto in italiano da Bompiani.
In un misto di irriverente dissacrazione e ispirata ricerca sono sovrapposti “The Year Of Eating Dangerously: A Global Adventure in Search of Culinary Extremes” di Tom Parker-Bowles (Ebury Press, 2007) che, sì, è il figlio della regina consorte Camilla, ed è anche un apprezzato food writer e “Lessons in Excellence from Charlie Trotter” di Paul Clarke (Ten Speed Press, 1999) una raccolta di interviste al famoso chef americano e ai suoi collaboratori, da cui emergono importanti consigli per chi vuole conoscere il business della ristorazione. È chiaro l’interesse per le storie personali di successo, legate al cibo, che siano di ispirazione per un giovane che vuole affermarsi nell’ambiente gastronomico e non stupisce, quindi, la presenza di “Serious Eater: A Food Lover’s Perilous Quest for Pizza and Redemption” di Ed Levine (Portfolio, 2019) il racconto di come un giornalista freelance ha creato uno dei più importanti siti di cucina del mondo, appunto Serious Eats.
Ci sono le opere dei grandi chef contemporanei che hanno forgiato il concetto di “chef stellato”: René Redzepi, ovviamente, ma anche Alex Atala e Ferran Adrià, di cui oltre a esserci, in basso, con il dorso giallo, i volumi dedicati al suo mitico ristorante El Bulli, si vede in bella vista “The Family Meal” (Phaidon, 2011) che, contrariamente a quanto possa far pensare il titolo della traduzione italiana, “Il pranzo in famiglia”, non si occupa di cibo consumato in casa, ma del pasto che si prepara ogni giorno per lo staff di un ristorante, che si chiama in gergo family meal, e che, come vedrete, in The Bear è un momento fondamentale.
Si trovano poi una serie di scelte che accomunano la libreria di Carmy con quella di quasi tutti gli appassionati di cucina moderna: “The Essential New York Times Cookbook” di Amanda Hesser (W.W. Norton & Company, 2010), il libro dello chef del St. John di Londra, Fergus Henderson “Nose to Tail Eating: A Kind of British Cooking” (Bloomsbury, 2004) che con onestà e semplicità spiega come cucinare ogni parte del maiale, un titolo che Bourdain ha sempre indicato tra i suoi preferiti. C’è Ottolenghi, immancabile, ma nella versione ufficiale del libro del suo ristorante “NOPI: the Cookbook” (Ten Speed Press, 2015) un po’ meno pratica e accessibile rispetto ai libri che tutti amiamo come “Simple” o “Flavour”. C’è la bibbia della panificazione moderna “Tartine Bread” di Chad Robertson (Cronicle Books, 2010), quello che ha scatenato la rivoluzione del sourdough, e anche “Tartine All Day: Modern Recipes for the Home Cook” di Elisabeth Prueitt (Random House, 2017), che rende accessibili le ricette più famose della bakery di San Francisco. Vediamo Alice Waters con “Chez Panisse Vegetables” (William Morrow, 2013) e “My Pantry: Homemade Ingredients That Make Simple Meals Your Own” (Clarkson Potter, 2015) e addirittura un Rick Stein “English Seafood Cookery” (Penguin, 2009) che pur trattandosi di uno dei più famosi, e venduti, autori inglesi è un libro che non mi sarei aspettata di trovare.
Sono molti altri i libri sparsi nelle varie location della serie (in vari punti del ristorante di Carmy, a casa di Sydney, sono certa che li vedrete) e trovo sia stato un espediente molto intelligente utilizzarli per dare ancora più spessore al racconto, solleticando anche l’interesse di noi food nerd.
Fuori menù:
Matty Matheson, che interpreta Neil Fak, improbabile tuttofare del ristorante, è l’unico vero cuoco a far parte del cast. Canadese, proprietario di vari ristoranti a Toronto, è anche autore di due libri di cucina (soprattutto sulla cucina casalinga americana) e sta lavorando ad un terzo.
Qui urgono ringraziamenti, e se sono smielata, mi dispiace, ve li beccate lo stesso. Grazie per essere arrivati fino a qui ed aver letto tutto questo numero che è parecchio denso di informazioni, ne sono consapevole, ma spero abbia soddisfatto la grande passione che condividiamo. Grazie ad Alessia che ha accettato con gioia, e trovato il tempo, di scrivere per Sfoglia e che dovrebbe scrivere di cinema tanto quanto scrive di libri. Ci rivediamo giovedì prossimo con i soliti consigli di “3 libri di cucina”.
Alessia Ragno vive a Bari, è una fisica ma scrive di libri su L’Indiependente. Sui social è da sempre @amaracchia.