Sfoglia chiacchiera con Piero Macchioni
giornalista, vice direttore di Grazia, autore di Secret Breakfast Newsletter
«Ho sempre usato la chiave dell’intermediazione, senza caricare troppo di commenti, ho cercato di essere un intrecciatore di nodi, un amplificatore di segnali in mezzo a tanto rumore»
Facciamo finta per un attimo. Facciamo finta che all’improvviso, per qualche motivo sconosciuto, lo spazio di archiviazione digitale finisse. Impossibile sostenere la mole di dati contenuta nel web, i sistemi Cloud collassati, semplicemente: troppe informazioni. E allora, per rimanere in vita, le nostre caselle di posta elettronica devono rimpicciolirsi, contenersi, dobbiamo tornare a svuotare i cestini e non ci possiamo più permettere di essere iscritti a 195 diverse newsletter; c’è un conteggio nel server di posta, una per tipo, una sola per argomento: una di saggi personali, una sui libri, una sul cinema, sulla musica. E una sul cibo.
Se questo incubo diventasse realtà ora, in questo momento, non credo avrei dubbi. L’unica newsletter a tema cibo, quella che sceglierei di ricevere ogni settimana sarebbe Secret Breakfast Newsletter di Piero Macchioni.
È un nome che vi suona? Probabile. Perché Piero, oltre ad essere un giornalista e l’attuale vice direttore della rivista Grazia, è stato un precursore del blogging italiano con leibniz* «il blog che non conserva le forme sostanziali». Nato a Febbraio 2003, sulla piattaforma Splinder, pensando ad un filosofo che ha anche il nome di un biscotto, segnala notizie ed articoli su letteratura, tecnologia e costume e permette al suo autore di scoprire un mondo senza confini, in cui condividere le sue passioni ed entrare in contatto con la vera rete, quella fatta di persone, sparse per il mondo, che amano le stesse cose.
Piero Macchioni è ammaliato dalle novità, dal linguaggio della tecnologia, dalla libertà che il digitale ci ha dato, e anche dal cibo. Per questo a Novembre 2020 decide di sperimentare il mezzo newsletter creando Secret Breakfast. Leggerla è come una centrifuga, come precipitare alla massima velocità nella tana del Bianconiglio, ti lascia pieno di spunti, di energia e con qualcosa su cui riflettere. Lui la definisce «prime food for thought and crunchy angles to find the missing ingredients that umami our existence in new and dangerous way». Serve dire altro?
La comunicazione digitale: perché?
Perché è la comunicazione principale. Una volta ci si andava a cercare le notizie, adesso le informazioni devono arrivarti in tasca, c’è un rapporto più diretto e di conseguenza non puoi essere come un locale che aspetta che arrivino i clienti, devi essere tu a cercarteli. Quello che un tempo consideravamo tecnologia ora è come l’aria e, da una parte, rispecchia il bisogno umano di mettersi in connessione con gli altri, dall’altra è fortemente abilitante: permette a tutti, non solo a me, di avere una vita, un lavoro e, nello stesso tempo, ampliare una rete di connessioni, di informazioni sulle cose che ci piacciono ma non fanno parte del nostro quotidiano. Diventa una valvola di sfogo. Alcuni lo definivano “il terzo posto”: c’è la vita privata, la vita lavorativa e poi un terzo posto in cui cerchi altre cose ed entri in contatto anche con persone più affini a te, che difficilmente incontreresti nella vita fisica, e questo per me è sempre stato il divertimento. Sono abbastanza vecchio da aver vissuto quella fase in cui da un momento all’altro è stato possibile leggere i giornali stranieri quando uscivano, mentre prima bisognava aspettare il quotidiano che ti rivendeva pezzi usciti in America tre settimane prima, e il poter vedere tutto più o meno in diretta ha aperto un mondo di possibilità a livello culturale.
L’idea di Secret Breakfast come ti è venuta? Qual è l’obiettivo della newsletter?
L’idea è “pandemica”, risale al periodo in cui tutti avevamo molto tempo libero e a me era venuto un po’ a mancare il contatto con le persone. C’erano molte cose che riguardavano il mondo del cibo che avrei voluto raccontare al vicino di scrivania in ufficio, o agli amici, e mi sono chiesto dove avrei potuto convogliarle. Ho ragionato su qualcosa che non pestasse i piedi al mio lavoro, che non entrasse minimamente nell’ambito che seguo anche se, comunque, il lavoro mi consente di dedicarmi un po’ più seriamente alla passione per il mondo dell’alimentazione e della cucina. Mettendo insieme tutte queste cose è venuta fuori la newsletter, che ha un tono costruito per farla sopravvivere più di qualche settimana ed è fatta in modo che io riesca a metterla insieme senza morirci sopra - più o meno…a parte una volta a settimana. Allo stesso tempo volevo che mandasse un segnale minutissimo sul poter fare comunicazione del mondo food in una maniera un po’ meno seriosa, senza prendersi troppo sul serio e magari concentrandosi di più sul piacere di questo mondo. È un ambito che piace a tanti, ma che poi viene affrontato in maniera esclusiva anche quando si tratta di fare la spesa all’Aldi. È una delle conseguenze negative del personal branding, che porta tutti a presentarsi in maniera molto ingessata, come potenziali depositari di grandissime sponsorizzazioni o collaborazioni, mentre in realtà la cucina comincia davvero aprendo un frigorifero, ricordandosi della zia, della nonna. Io sono una persona oberatissima dalle email, quindi mettermi a fare confusione nelle caselle altrui mi sembrava un sacrilegio, ma l’idea era che in ogni newsletter almeno un link interessante potessi trovarlo, avendo voglia di aprirlo, altrimenti ci sarà altro la settimana successiva, senza che sia una cosa impegnativa. Invidio molto chi riesce a fare queste mail, di cibo o di altre materie, monografiche, saggi bellissimi, ma molte volte dipende dall’autore: la mia somiglia molto a me, e va bene così, ha molti miei difetti, qualche pregio e un po’ di cazzeggio. C’è un senso di liberazione, è uno spazio molto più piccolo, con zero responsabilità, è nata con questo intento.
L’interesse per il cibo da dove viene?
Mi piacerebbe dire che è una cosa mia, ma senza dubbio nasce dalla mia famiglia. Io sono figlio, nipote e pronipote di ristoratori; la mia famiglia ha avuto un ristorante, che si chiamava come il mio bisnonno (il ristorante “Pancrazio” in Piazza del Biscione, a ridosso di Campo De’Fiori a Roma, n.d.r.) per cento anni, dal 1922 fino a fine 2022, quando è stato venduto. Sono cresciuto in quel mondo, anche se non ho mai fatto nulla, neanche servito per sbaglio ai tavoli, ma mi è sempre piaciuto molto. E quando cresci in un posto in cui il tavolo di casa tua è in realtà il tavolo del ristorante, con gente che va e viene, fai caso a molte cose, molte situazioni, ti piace il senso di comunità che si viene a creare. Poi questa passione è andata un po’ per la sua strada: in realtà la mia formazione è più da cliente di ristoranti o da cuoco amatoriale che da chef o gestore di locali.
Un ricordo di cucina di quando eri piccolo.
Già da piccolo ero un po’ fissato per la cucina. Quando i miei genitori andavano via per qualche giorno veniva mia nonna a tenere me e mio fratello e io le spiegavo come doveva cucinare le cose e mi ricordo una volta aveva preparato gli hamburger, che avevano quei foglietti di plastica protettiva sopra e sotto, e li aveva cotti con tutta la plastica, ed io ero scandalizzato. La stessa nonna viveva sei mesi l’anno in provincia di Modena e non aveva il telefono in casa, quindi, quando eravamo da lei, la sera dovevamo andare a casa di una sua amica, in un altro palazzo, ad aspettare la telefonata dei miei genitori. E in questa casa vedevo una sala, coperta di teli, di canovacci, con sotto la pasta ripiena che preparava la signora, ma ne avrà fatta, non so, migliaia di pezzi e neanche li congelava! Anche se queste cose non accadevano a casa mia è come se la curiosità per la cucina mi abbia sempre seguito.
Le citazioni, le recensioni dei libri sono una parte importante della newsletter e mi suggeriscono che tu sia un gran lettore: è vero? Cosa leggi di solito?
Sono un lettore sofferente. Se mi chiedi le tre cose che mi piacciono di più nella vita una delle tre è sicuramente la lettura di libri, però da solo, con calma, senza interruzioni. Vengo da alcuni anni in cui riesco a leggere veramente poco, sfoglio molto, cerco molto in giro, perché una delle conseguenze del mio lavoro è dover leggere moltissimo quello che pubblichiamo ogni settimana, quindi, mettici anche la vita da genitore, la lettura per piacere personale si perde un po’. Neanche in vacanza si riesce, anche perché adesso paradossalmente andare in vacanza significa “fare cose”. La lettura è qualcosa che inseguo quando posso. Mi piacciono molte cose diverse tra loro. Ultimamente se esce un bel memoir a tema cibo cerco sempre di sfogliarlo e capire, è una letteratura in cui si trovano sempre spunti interessanti, storie di vite pazzesche. Mi piace la science-fiction, ci sono dei bellissimi romanzi che mi fanno pensare che avrei dovuto studiare più materie scientifiche in fase di formazione personale. Mi piace il loro meccanismo, perché di solito partono tutti da un elemento che abbiamo nel presente, lo caricano e lo mettono al centro, declinandolo in un mondo distopico. L’ultimo libro che ho letto è La vita intima di Niccolò Ammaniti, oltre ad essere un esempio di scrittura meravigliosa, lui mi diverte molto perché racconta un’umanità che sembra caricaturale, ma in realtà siamo proprio noi. E poi mi piacciono i libri esteticamente belli. L’altro giorno, dopo un po’ che ci giravo intorno, mi sono comprato Il pranzo di Babette nell’edizione Penguin Clothbound Classics; sto recuperando tutti i libri Penguin della collana Great Food, vado pian piano a cercarmi quelli che mi mancano (una serie di 20 libri in piccolo formato, pubblicati nel 2008, dedicata a raccogliere il miglior food writing degli ultimi 400 anni, con il design di copertina curato sempre da Coralie Bickford-Smith, n.d.r.). Tra i ricordi di cucina forse dovevo dirti anche che a casa avevamo due mini scaffali in cucina con i libri e Il Talismano della felicità troneggiava insieme al Cucchiaio d’argento e ad un altro, vecchissimo, di cucina regionale, che anzi dovrei cercare, perché mia madre ne parlava come del miglior ricettario che avesse.
Che cuoco sei?
Prima di tutto sono l’unico. Diciamo che i piatti cambiano molto in base a come cambiano i gusti crescendo, ma prevalentemente non siamo consumatori di carne e tendiamo ad essere Ottolenghiani, ma senza aglio e cipolla. C’era un libro che diceva che per condurre una vita sana bisognerebbe mangiare più in maniera giapponese, quindi preparare una pietanza principale con tanti collaterali, un carboidrato intorno al quale costruire delle cose. La base è questa, poi preparo sempre tantissimi legumi, tanta verdura, poca frutta. Cerco sempre spezie particolari e dal 2018 fermento qualunque cosa, creando anche degli incidenti, come quando sono scoppiate due bottiglie di Kombucha mentre non eravamo in casa e da lì mi è stato messo il divieto di prepararla. Se faccio la pizza preparo un impasto particolare, ci vogliono tre giorni per farlo, ma rende benissimo ed è una ricetta che ogni tanto infilo nella newsletter perché mi piace tantissimo e ha anche una storia carina. È la ricetta del flatbread di questo posto inglese che si chiama Black Axe Mangal dello chef Lee Tiernan. Lui stava cercando un impasto che venisse bene anche cotto sul barbecue, ma non gli riusciva, allora fa un viaggio a San Francisco dove Chad Robertson di Tartine gli spiega come fare, ma tornato a casa non si ricorda niente quindi per mesi rimane senza impasto. Alla fine lo richiama umiliato per farsi dire di nuovo la ricetta e questa cosa mi diverte molto perché davvero potevo essere io. Per darti un’idea, hai presente il libro Il pedante in cucina di Julian Barnes? L’ho preso, l’ho letto, poi passato del tempo ho visto un’edizione del libro e ho pensato “vedi che bella questa edizione”, l’ho ricomprato ed era la stessa identica che avevo già. Non sono proprio un “pedante” come cuoco, e ora confrontandomi con questo mondo mi accorgo che abbiamo tutti le stesse idiosincrasie, ad esempio i coltelli: io davvero mi chiedo come si possano avere duecento coltelli e nessuno che tagli, posso accettare la padella sbagliata, ma il coltello! E poi quando vedi questi film bellissimi in cui due persone si innamorano cucinando insieme: non ce la potrei mai fare, in cucina preferisco stare solo.
Attraverso un design e una comunicazione molto pop Secret Breakfast affronta anche temi attuali e controversi: come scegli gli argomenti da trattare?
Quando vedi un tema di stretta attualità è proprio l’ultima cosa che decido di inserire, per dare un senso di settimanalità. La storia dei libri di Dahl, ad esempio, toccava un po’ tutti, e la Penguin alla fine l’ha anche risolta in modo brillante, però lì per lì mi sono chiesto questo discorso dell’autenticità, applicato al food, cosa cambierebbe? Che cos’è che invecchia male? Invecchiano male le ricette, la moda della rucola sulla pizza o la vodka nelle pennette, ma questi sono cibi autentici di un certo periodo storico. Cosa si dovrebbe fare allora, aggiornare ogni volta un libro di cucina? Il mio ragionamento è stato: cosa fai tradisci una cosa di cui ti vergogni? Oppure la lasci com’è e decidi che fa parte del tuo tempo? Io penso si debba lasciare com’è, per far vedere come erano le cose in quel momento. La riflessione che ha fatto più scalpore è stata quella sul video di Taylor Swift in cui lei si pesa sulla bilancia e compare la scritta “fat”, grassa. Avendo tanti lettori negli Stati Uniti è scoppiato un putiferio; un putiferio comunque educativo, perché loro ti scrivono e ti spiegano le loro ragioni, poi ti dicono “non ti leggerò mai più sei un grassofobico”. Ci sono, però, un paio di temi che inserisco spesso e uno è proprio la “grasso-fierezza”, che secondo me è un errore a livello di salute. Non va bene l’intolleranza, ma neanche la promozione di qualcosa che non ti fa stare bene, perché non c’è solo il peso, la condizione critica ha molto a che fare con la salute, ci sono malattie cardiovascolari, tumori. Quello che mangi è comunque quello che diventi crescendo, come moltiplichi le tue cellule a livello biologico. Un’altra cosa su cui torno spesso, anche se in modo meno esplicito, è l’abuso di certe sostanze, in particolare gli alcolici. Mi sta interessando sempre di più la tenacia di chi esce dall’alcolismo ed è un tema ancora molto tabù, in Italia praticamente non esiste, non è riconosciuto come accade altrove, eppure una vita senza alcool è veramente difficile a livello di accettazione sociale. Tutte le volte che trovo spunti a riguardo li inserisco perché mi incuriosisce vedere come viene trattato questo argomento, quali persone vengono fuori per raccontarlo. Sta diventando un tema molto femminile, una volta erano i vecchi padri ubriaconi, adesso ci sono molte più donne che si raccontano, quindi ha sviluppi interessanti. Non sono temi di cucina in senso stretto, più di alimentazione, ma gli eccessi, in generale, mi interessano.
Come mai hai scelto l’inglese come lingua per scrivere la newsletter?
Per aggiungere qualcosa su cui imparare io personalmente, per migliorarmi facendo qualcosa di diverso. E anche per vedere dove mi avrebbe portato scrivere in inglese, come un biglietto per fare un viaggio restando a casa: chi avrebbe letto quello che scrivevo in inglese? Dove sarebbe arrivato? Una risposta che mi sono dato dopo due anni è che in Asia non arrivi, è difficilissimo, ho raggiunto qualche italiano che vive lì ma se, per esempio, mi fossi trovato da un giorno all’altro 100 mila cinesi che mi seguivano allora probabilmente la newsletter sarebbe diventata un’altra cosa. Forse mi sarei focalizzato sulla bellezza della cucina italiana raccontata ad un pubblico asiatico, perché a quel punto avrei sfondato una nicchia inespugnabile. È stato invece facile arrivare nella provincia americana, ed è divertente perché loro sono molto più disposti allo scambio, alla condivisione ed è un ulteriore arricchimento. Ho trovato poi almeno dieci persone italiane straordinarie con cui condivido gli stessi riferimenti, potremmo essere cresciuti insieme, sembriamo cloni e invece veniamo da posti completamente diversi, ma questa è proprio una della cose che mi è sempre piaciuta della pubblicazione online: da una parte ti rendi conto che pensavi di essere tanto originale e invece non lo sei e dall’altra, però, ti senti a casa. Ogni tanto il miracolo di trovarti il tuo pubblico, un pubblico che ti somiglia, accade. Se hai costanza prima o poi ci arrivi ed è molto bello, magari non è un punto di arrivo, ma è una soddisfazione. Con i social questa cosa invece l’ho un po’ persa, non mi sono mai trovato, non so se sia l’algoritmo, sono un grande consumatore di contenuti, ma essere un produttore è diverso, ed è molto difficile trovare un po’ di autenticità, che invece puoi trovare nella newsletter. In fondo, rispetto ai social, è come un baracchino: uno strumento più a bassa frequenza, più rudimentale, però una volta che si deposita è un’onda che raggiunge persone che sono sulla tua stessa linea, dovunque siano e qualunque cosa facciano.
Che differenza hai notato tra il pubblico italiano e quello internazionale?
Nel pubblico internazionale, in particolare americani e nord americani, trovo molta più capacità di disarmarsi. Ogni tanto inserisco una domanda, per chi ha voglia di rispondere, su aspetti più privati e vengono fuori sempre cose carine perché loro hanno voglia di condividere, senza vergogna, sono abituati ad usare nome e cognome per tutto, ti scrivono il nome dei figli, da quel punto di vista siamo proprio culture differenti, si capisce proprio perché da noi c’è il GDPR (General Data Protection Regulation, n.d.r.) e da loro no. In Europa è un po’ diverso, i francesi ad esempio sono più schivi, ma l’americano se, ad esempio, scrivi qualcosa che lo fa arrabbiare ti risponde subito e prende decisioni integraliste. Credo che un errore che facciamo in questa fase storica sia prendere situazioni singole e trasformale in paradigmi, io sono un po’ contrario a questa cosa, i giornali vanno in un’altra direzione, ma la tua storia è la tua storia; se poi me ne trovi altre dieci come la tua allora magari abbiamo un fenomeno, ma tu non puoi considerarti il paradigma di tutto. I fenomeni sono complessi, mentre noi spesso li semplifichiamo, anche per farli leggere, e li trasformiamo in qualcosa di più grande di quello che sono.
Ripensando anche al lavoro che hai sempre fatto con il blog leibniz* e all’ebook di Secret Breakfast sui trend del 2023, in cui è intervistata anche ChatGPT, è chiaro il tuo grande interesse per la tecnologia e il mondo digitale: quali pensi che saranno le interazioni future tra il nostro modo di fruire il cibo e la tecnologia?
L’aspetto più pervasivo che noto ora è l’influenza del mondo digitale su quello fisico. Ci saranno sicuramente in futuro le intelligenze artificiali che sintetizzeranno le proteine, che ci faranno pani più digeribili e meno costosi, ma quello che trovo veramente interessante è il riflesso della tecnologia digitale sul mondo reale. Faccio un esempio. L’altro giorno camminando vedo un monopattino di quelli in affitto, che hanno sempre degli adesivi pubblicitari sopra e questo aveva la pubblicità dell’hamburger di Mr.Beast, che è uno degli youtuber più seguiti al mondo, che pochi mesi fa ha aperto una catena di hamburger negli Stati Uniti. Ora i suoi panini sono disponibili in Italia tramite l’azienda di monopattini Helbiz che ha attivato Helbiz Kitchen, un servizio di consegna pasti a domicilio, quindi tu puoi mangiare quei panini a casa mentre, altrimenti, faresti una fila mostruosa. Questo è un brand orizzontale, globale e ti arriva su un monopattino. Oppure pensiamo a Tal dei Tali che dice “questo è il maritozzo più buono del mondo” e il tizio che faceva 20 maritozzi comincia a farne 200, poi 2000 e poi implode o diventa anche lui un brand globale e in 5 anni sponsorizza la Champions League. Questo effetto è molto interessante perché cambia persone, posti, abitudini, quartieri, porta alla gentrificazione di alcune zone e fa diventare in un attimo fuori moda altre cose. Non è un processo nuovo, ma mi sembra molto più veloce e potente di prima. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, invece, credo che ci sarà un aumento di rumore e di banalità, probabilmente sarà più difficile farsi ascoltare, ma chi produrrà cose veramente autentiche e creative alla fine si farà notare di più. Ci sarà un momento in cui chi farà valere la propria umanità vincerà sul resto, magari non sui grandi numeri, ma la sfida sarà andare a trovare il segnale in mezzo a tanto rumore, e questo vale anche per la cucina.
Chi o quali sono le tue più grandi ispirazioni?
Sono una persona curiosa, con gli occhi puntati sempre a destra e a manca, tante cose mi incuriosiscono, mi piace molto scoprirle prima degli altri e poi fare quel giochino per cui quando diventa famosa dico “che noia, è vecchia”. A livello anagrafico ad un certo punto della mia vita sono stato travolto da quella new wave nordica, nata a Copenhagen, che sta ancora producendo ramificazioni: l’influenza che avuto il Noma di Redzepi per il racconto della cucina è stata enorme. Mi è piaciuta la capacità generativa di quell’esperienza: chi è uscito da quel locale ha aperto poi cose differentissime, chi il baretto, chi la taqueria, chi si è dedicato alle brioche, chi è andato in Giappone a fare la pasta fresca. Anagraficamente mi sono trovato in quel periodo, però magari domani faccio un viaggio a San Sebastian e decido che in questa decade sarà tutt’altro ad influenzarmi. Sono per un quarto modenese quindi tutta la mitologia di Bottura mi diverte molto. In realtà il vero legame con lui è scattato quando ho visto la puntata di Chef’s Table in cui raccontava gli anni del ristorante vuoto: è una cosa che succede veramente nei ristoranti, io quell’ansia l’ho vissuta in famiglia in alcune stagioni, siamo passati dagli anni ’80-’90 di grandissima richiesta a vari periodi in cui non era più così e quindi capisci proprio che la condizione del ristoratore è anche trovarsi disallineato dal tempo e doversi chiedere se aspettare oppure chiudere. Amo moltissimo la scrittura di Nigel Slater, lui è proprio il parente che vorrei avere, è il comfort food anche senza cibo, l’ambiente che crea con le parole, riesce a darti la sensazione che tutto sia sotto controllo anche quando niente è sotto controllo. Essendo poi un numero due a lavoro, sono affascinato in generale dai numeri due, quindi sono pazzo di tutte le varie food developer come Noor Murad, Ixta Belfrage (entrambe preziose risorse della Test Kitchen di Ottolenghi, n.d.r.) loro potrebbero tenersi tutte le informazioni, non condividere niente, invece sono bravissime a raccontare trucchi, istruzioni pratiche e aspetti estetici dei loro piatti. Negli ultimi anni molte sono diventate freelance e questo ha creato un nuovo movimento che da spettatore è molto interessante.
Apriamo il cassetto: un sogno piccolo e un sogno grande.
Un sogno grande è chiaramente poter mangiare tutto senza ingrassare. Un sogno piccolo è viaggiare di più, ma lasciandosi andare, mischiandosi di più con le persone del luogo, senza stare sempre a compilare check-list di posti da vedere, più vagare e capire un minimo l’essenza dei posti stessi.
La tua “cena immaginaria”: tre invitati, di qualunque ambito o epoca, chi inviteresti e cosa cucineresti per loro.
Su questa domanda potrei starci ore. Ne dico tre per una cena un po’ seria che metterebbe insieme tre mie passioni non culinarie: lo scrittore Jules Verne, perché sono cresciuto con i suoi romanzi e li colleziono ancora; la fotografa e inviata di guerra Lynsey Addario, perché ha scattato e raccontato storie pazzesche; il direttore d’orchestra e compositore Leonard Bernstein, perché vorrei sapere che cosa si prova a condurre la seconda sinfonia di Mahler. Non cucinerei nulla di elaborato, per non perdermi la conversazione. Avremmo in tavola tante cose cotte il meno possibile, ma di prima qualità: una panache di frutti di mare nel ghiaccio, pane nero, Burro d'Isigny; asparagi selvatici saltati in padella con aglio e pochissimo pomodoro, magari della zucca al miso e sesamo nero, pane di grani antichi; del roast-beef con delle verdure cotte in un forno a fuoco fortissimo. E poi un po’ di magia: del pane Challah arrivato dal Marais di Parigi, gnocco fritto e prosciutto crudo del mio bar preferito di Modena, la pizza bianca del forno di Campo de’ Fiori a Roma, la focaccia con frattaglie di agnello del Black Axe Mangal di Londra. Come dolce gelato: il gusto Secret Breakfast - bourbon e corn flakes - della gelateria Humphry Slocombe di San Francisco. Berremmo vini francesi, probabilmente anche un calice di un Krug millesimato.
Domanda “hot”: colazione dolce o salata?
Salata. Credo ci sia qualcosa di ancestrale nella colazione salata, posto che ovviamente mi piace anche quella dolce, ma sono sconvolto da quanto caffè schifoso e quante brioche surgelate mangiamo proprio noi che pensiamo di fare la colazione più buona del mondo, però non posso fare lo snob se no divento come quelli che non mi piacciono! Diciamo che già il miracolo dello svegliarsi la mattina e mettersi insieme, già quello merita una celebrazione, quindi va bene tutto.
3 libri di cucina consigliati da Piero:
Nigel Slater, Toast. The Story of a Boy’s Hunger, Fourth Estate, 2003
Perché è il libro che racconta la storia dell’autore, della Gran Bretagna e l’educazione culinaria di un futuro cuoco attraverso il cibo. È forse il libro che più vorrei aver scritto io.
Yotam Ottolenghi, Sami Tamimi, Jerusalem, Random House, 2012
Perché mostra non solo piatti e ricette, ma anche luoghi e persone. E per me la cucina di un certo posto è proprio il riflesso della sua gente.
René Redzepi, David Zilber, Noma. La guida alla fermentazione, Giunti, 2019
È un libro che ha avuto un’influenza fortissima negli ultimi anni su tanti appassionati di cibo, me compreso. È realizzato benissimo. È chiaro. L’illustrazione di copertina di Paula Troxler è potentissima.
Fuori menù:
This Will Be Our Year è il titolo dell’ebook in cui Piero ha intervistato alcuni talenti del food (e ChatGPT) sulle loro previsioni gastronomiche per il 2023. Si può scaricare anche gratuitamente.
La ricetta del flat bread di Black Axe Mangal di cui abbiamo parlato.
Ringrazio di cuore Piero per essere stato così generoso nelle sue risposte e per avermi fatto apprezzare, con le sue parole, ancora di più lo strumento della newsletter. Ora penso proprio che non si offenderà se chiudo con un rapido saluto per correre a finire la seconda stagione di The Bear! (Ne riparleremo).