«Questo è il mio stile, quello che racconto nei miei libri. Sono sempre le “magiche avventure di Laura” un po’ rocambolesche, a incontrare questa gente nei ristoranti in Italia, o in giro per il mondo, nei forni, nei mulini. Perché forse la verità è che io voglio fare la romanziera»
La cultura del cibo. Come si può fare cultura del cibo, quello italiano, in modo efficace, con la consapevolezza che confini, in realtà, non esistono? È possibile essere profondamente internazionali, quindi, e contemporanei, del tutto parte di un mondo creativo esistente a livello globale ed essere, allo stesso tempo, in grado di decodificare perfettamente il gusto e la cultura gastronomica italiani? È possibile forgiare la propria vita di ricerca e studio, immaginare luoghi di incontro, momenti di condivisione della creatività, ed essere in grado, concretamente, di realizzarli?
È possibile, certo. E diventa realizzabile quando sei Laura Lazzaroni, quando hai la sua energia, la sua esperienza, la sua sensibilità e la visione di chi è partito, in realtà, dal bisogno di scrivere, di raccontare. «Ho scritto la mia prima novella probabilmente in seconda media, quando sono stata a letto per tre mesi con la mononucleosi, l’ho scritta a mano con la Bic su delle risme di carta che mio padre usava per lavoro, del fax forse. Era appena uscito Piramide di paura, prodotto da Spielberg, ed io mi ero molto appassionata e quindi questo librettino era un giallo e si intitolava “Il figlio di Sherlock Holmes”».
La “Laura prima del pane” si è diplomata al liceo classico, poi laureata in Biologia, una scelta dettata da apparente praticità, ma in cui l’assenza della scrittura fa sentire subito il suo peso. Il corso di specializzazione della Statale di Milano in Giornalismo Scientifico è il modo per tornare alla passione originaria ed entrare nell’editoria, iniziando a scrivere di scienze per D di Repubblica. Tutto il percorso professionale di Laura Lazzaroni è fatto di serena determinazione, di vitale curiosità, di un costante desiderio di conoscere, scoprire e raccontare, che si percepisce già nei primi minuti di conversazione.
«Mi hanno chiesto se volessi scrivere anche di altro e lì ho cominciato la mia grande campagna di martellamento “operazione America”. Quando Manuela Parrino, la loro inviata da New York, si è trasferita a Gerusalemme, si è liberato il posto e D mi ha fatto il visto. Ho avuto due visti giornalistici da cinque anni per stare in America e inizialmente sono stata inviata a New York per D, ma mentre ero lì ho scritto anche per Vogue e altri giornali. Ho curato il ri-lancio dell’edizione americana de La Cucina Italiana e questo in qualche modo è stato il legame con il mondo del food. Poi sono tornata in Italia per Condé Nast, perché Franca Sozzani aveva preso in mano L’Uomo Vogue e voleva creare una redazione tutta di gente giovane, nuova, e rilanciare la testata con un taglio di attualità, puntando non tanto sulla moda, che diventava quasi un accessorio, rispetto alle storie di grandi personaggi, in numeri monografici, che trattavano di arte, architettura, cinema, letteratura, attivismo».
Laura racconta un mondo editoriale di cui forse è rimasto poco, probabilmente il sogno di molti giovani scrittori, e lo fa con grande serenità, con la consapevolezza di chi guarda sempre avanti, verso nuove possibilità, nuovi spazi da esplorare. «Sono stata nove anni in Condé Nast, alla fine ero capo redattore attualità, ed è stata per me una vera scuola di giornalismo di testata. Sozzani era un direttore fantastico, con una visione incredibile. Un direttore la cui porta era veramente sempre aperta, lei ascoltava tutti, potevi essere anche lo stagista appena arrivato, se ti veniva un’idea intelligente lei tre minuti te li trovava. Quando sono entrata a L’Uomo Vogue c’erano ancora tre o quattro correttori bozze interni e per una persona che ama la scrittura era la situazione ideale. C’erano questi signori, che a quel punto avevano già un’età, che facevano quel mestiere da decine di anni, e venivano lì, si appoggiavano alla mia scrivania con in mano il foglio di un articolo che avevo passato e stavamo magari un quarto d’ora a discutere della scelta degli aggettivi in una frase, di come girava un periodo.»
È un viaggio stampa nelle Marche, per visitare Prometeo Farro di Massimo Fiorani e Pasta Mancini, a porre le fondamenta della nuova, e attuale, casa intellettuale e professionale di Laura. «L’evento fondamentale è stato l’incontro con Oriana Porfiri e la scoperta delle vecchie varietà di grano, che secondo me hanno riacceso la lampadina della biologa. All’epoca il mio carissimo amico Gianluca Biscalchin, che curava una piccola collana per Guido Tommasi Editore e cercava idee per nuovi libri, mi ha detto di fare una proposta e l’idea all’inizio era di fare un libretto, senza neanche foto, e certamente senza ricette, sulle vecchie varietà di grano. Nel frattempo ho letto Cotto1 di Michael Pollan, mi sono appassionata alla panificazione domestica, e ho pensato di continuare a fare il pane con le vecchie varietà e da lì è venuto fuori Altri grani, altri pani2».
Nel 2021 Lazzaroni ha scritto sia The New Cucina Italiana3 edito da Rizzoli america, sia La formula del pane4, pubblicato da Giunti (che vi ho raccontato in questo numero di Sfoglia): due libri diversi, ma due tappe importanti in questo percorso che sta compiendo, di scoperta e di scrittura, che è veramente entusiasmante seguire.
Il racconto del pane: perché?
Banalmente perché è una cosa in cui mi sto specializzando sempre di più, sto diventando sempre più competente. Diciamo che ho due cappelli professionali: da una parte faccio la giornalista e autrice di libri. Come giornalista ormai scrivo quasi solo per Food&Wine americano, ma mi interessa ovviamente scrivere libri e mi piacerebbe passare alla narrativa. L’altro cappello professionale sono le consulenze in ambito enogastronomico, che, alla fine, sono quasi sempre in area panificazione. Forse c’è anche una ragione più personale e intima e cioè che caratterialmente, e per questioni di zodiaco, perché sono Gemelli, è molto difficile tenere la mia attenzione, provo tante cose e poi mi stufo facilmente (ne La Formula del pane c’è un accenno ad un’esperienza con lo skateboard che, a quanto pare, è ora semplicemente esposto in casa, non più utilizzato, n.d.r.). Il pane, invece, è una cosa di cui non mi sono ancora stufata. Nel 2014, quando è uscito Altri grani, altri pani già lo facevo da tre anni e adesso lo sto facendo da più di dieci e ormai non posso non fare il pane, è proprio come respirare. Se non lo faccio per un po’ di tempo mi manca proprio fisicamente, è qualcosa che mi rilassa e mi diverte e c’è sempre un elemento di sorpresa che non mi stanca mai. Per cui era inevitabile che dedicassi sempre più la mia scrittura a questo.
Un ricordo di cucina di quando eri piccola
Ho due ricordi sovrapposti. Uno è quello della frittata di mia nonna. La mamma di mia mamma faceva una frittata con la lattuga e il parmigiano buonissima. Ora la racconto così perché ho degli strumenti più evoluti di racconto gastronomico, per cui sembra più interessante di quello che era, però come paragone hai presente il calzone con la scarola riccia del padre di Franco Pepe? Di cui tutti si chiedono come sia possibile che la scarola dentro resti croccante e succosa? Mia nonna non usava neanche le foglie più tenere, ma quelle spesse, esterne, molto verdi e aveva un modo, non so come, un po’ per come sbatteva le uova, un po’ per tutto il parmigiano grattato a neve che c’era, di far restare queste foglie carnosette di lattuga un pochino croccanti, ed erano perfettamente distese, ma con questo movimento ondulato, ed era un piatto elegantissimo. In realtà io per prima sono contro la retorica della nonna. Le mie nonne purtroppo sono entrambe mancate molto presto ed io non ho imparato a cucinare niente da loro, nessuna ha mai messo sul fuoco i classici pentoloni di ragù; mia nonna materna preparava poche cose, ma fatte molto bene. E questa frittata io la faccio ancora e mi piace molto. L’altro ricordo gastronomico forte che ho è di molto successivo. Già risale a New York. Sono andata a New York nel 2003 e ho veramente cominciato a cucinare lì. Mi sono trasferita a 27 anni, direttamente da casa dei miei, dove ogni tanto cucinavo, anche per loro, ma a New York è diventata una cosa fondamentale, per ovvi motivi: creare un senso di casa, ritrovare i sapori che mi mancavano. Le prime cose che ho iniziato a fare sono stati brasati, da brava lombarda, spezzatini e ragù. Adesso non mangio quasi più carne ma il mio contributo ai pranzi di Natale era brasato per tutti, infatti avrò una decina di cocotte diverse.
Hai vissuto molti anni in America, osservandola anche con l’occhio di una studiosa, mentre eri lì sei mai stata campanilista nei confronti della cucina italiana?
Non sono mai stata campanilista, anzi. Ho avuto due diverse fasi quando ero a New York. La prima è stata una fase di scoperta gastronomica assoluta. Quando sono arrivata mi ha veramente sconvolto quanto la gente fosse ossessionata dal tema del ristorante da provare; ed è vero che i newyorkesi mangiano sempre fuori, non cucinano niente a casa. Con il Covid e la crisi economica anche lì sono cambiate molte cose, ma io sono arrivata proprio durante il boom di quel tipo di esperienza: provare tutti i ristoranti, fare la coda davanti ai posti del momento. Mi ero iscritta a tutte le newsletter, avevo gli abbonamenti a vari giornali, compilavo liste di ristoranti da provare e, seriamente, le spuntavo man mano che ci andavo. Il mio spettro, quindi, all’inizio è stato molto ampio e per molto tempo non sono andata di proposito nei ristoranti italiani e non avrei neanche potuto essere campanilista. Quando poi ho chiuso il cerchio e ho cominciato a mangiare italiano là, e questo è successo verso la fine della mia vita newyorkese, ho subito capito che gli italiani che sono campanilisti forse dovrebbero fare un lavoro di ricerca un po’ più accurato, ed essere anche un pochino più obiettivi, perché in molti casi in America fanno un’interpretazione della cucina italiana, che non è la cucina italo-americana, che invece è una cucina a sé stante, con una sua codifica, una sua tradizione e dei suoi interpreti. La loro versione della cucina italiana si contamina con varie cose, privilegia la parte vegetale ed un certo tipo di servizio, di esperienza della condivisione, ed è a volte molto più italiano e molto meglio eseguito di tanti piatti che ho provato qui che non funzionavano. È una traduzione della nostra cucina semplice e di conforto, che non è necessariamente coincidente con l’idea di cucina della nonna cliché, stereotipata e super tradizionale. Penso alle fondatrici di Canal House, Christopher Hirsheimer e Melissa Hamilton, per molti anni recipe developer e food stylist, che hanno fatto parte del gruppo che ha fondato una grandissima rivista come Saveur, hanno pubblicato libri stupendi e ora hanno questo ristorante. Loro fanno esattamente, da sempre, questo tipo di cucina italiana: una cucina semplicissima, minimamente manipolata, che non è la polpetta al sugo o la lasagna. Pensa che il piatto più osannato l’anno scorso di Via Carota (ristorante ora molto in voga a New York, di Jodi Williams, già famosa per il ristorante Buvette, e Rita Sodi, il cui omonimo libro di cucina è stato uno dei più acclamati dello scorso anno, n.d.r.) è stato un risotto al limone fatto con l’acqua al posto del brodo, che magari non è neanche niente di che, ma il concetto è interessante: lì c’è la semplicità, c’è grandissima pulizia, c’è un pensiero contemporaneo legato alla tradizione. Il primo che ha cominciato a fare proseliti su uno stile di risotto così alleggerito è stato Gualtiero Marchesi, ma è adesso che si sta riprendendo questa tecnica dell’uso di un brodo vegetale leggerissimo, della tisana, di evitare il burro per la mantecatura. Gli americani sono molto bravi a creare un’atmosfera, lo sono in tutto, nei film, nei libri, e lo sono al ristorante, dove tu vai per un’esperienza innanzi tutto, fatta da mille cose, non soltanto da quello che c’è nel piatto. In questo sono maestri: ti servono una cosa che è di una semplicità sconvolgente, magari fin troppo, però incredibilmente contemporanea e nel complesso ti fanno stare talmente bene, e il comfort che ti passa è talmente profondo, che funziona e ti senti come in Italia. Noi italiani, di contro, ci vendiamo malissimo, ci raccontiamo male.
Se potessi cosa cambieresti del modo in cui noi italiani ci raccontiamo?
Toglierei tanta retorica, punterei su quello che è vero, su quello che è semplice, sui nostri punti di forza. Cercherei di non essere così autoriferito, di sganciarmi dalla logica del far vedere che siamo meglio degli altri. A volte ha molto più senso far star bene e fare una cosa semplice in maniera impeccabile. Ovviamente credo che la gente debba prepararsi e studiare, perché non ne posso più di andare al ristorante e sentire lo chef dire che loro lavorano con materie prime eccellenti e con produttori locali, perché non capisco cosa mi sta dicendo: io do per scontato che al ristorante tu lavori con una materia prima eccellente e ormai tutti lavorano con i produttori locali. La sensazione è che ormai ci sia un grande appiattimento nell’approccio: quegli aspetti per me sono il fondamento del tuo lavoro. E sopra questo cosa stai costruendo? Qual è la tua visione? Dov’è la tua personalità? Su cosa ti stai concentrando in particolar modo? E non deve essere per forza qualcosa di inusuale. Gli italiani hanno fatto molto bene la trattoria, l’osteria, che è stata la fascia di ristorazione che ha parlato a più persone, che ha educato al gusto più persone. Anziché provare a fare dei voli pindarici, che sono per pochi cuochi, io credo che bisognerebbe fare un lavoro incisivo ragionando su una ristorazione di mezzo, che non è soltanto la trattoria come la intende Diego Rossi (lo chef di Trippa a Milano, n.d.r), ci sono mille incarnazioni, perché è lì che all’estero ci stanno battendo. Stanno facendo bene questa ristorazione, che in alcuni casi è più cara, in altri più nazional popolare, per i giovani, più pop, ma sono bravissimi, anche perché hanno una visione del marketing. Gli italiani questo ancora non l’hanno sbloccato, eppure è un modello che abbiamo inventato noi. Oggi c’è la neo trattoria, o il bistrot di vino naturale con piccola cucina, ma c’è un mondo da sviluppare in questo senso e potremmo fare un lavoro più intelligente. Ci sono cuochi che lo stanno già facendo, come Niko Romito con Alt Stazione del gusto, che di fatto è unico nel suo genere, ma anche altri ristoranti in Italia lavorano bene sulla fascia di mezzo. Il punto è che ce ne dovrebbero essere sempre di più e con approcci sempre diversi. Retrovino a Roma ha una bella offerta gastronomica, oppure Ahimè a Bologna. Esistono posti in cui c’è ricerca, c’è tecnica e magari anche un’idea sofisticata, da cui ti arriva un messaggio molto dritto, l’esperienza è divertente e i codici gustativi sono quelli italiani. Questo dovremmo fare. Ci sarebbe un mondo da esplorare.
Tornando indietro ti piacerebbe iniziare dentro la ristorazione?
No. È un mondo che conosco bene ed è un settore brutale che ti costringe a sacrifici incredibili. Per lo stesso motivo non ho una bakery. Intanto secondo me bisogna conoscere i propri limiti e io non sono un’imprenditrice, aprire locali e saperli mantenere economicamente è un’arte e io queste cose non le so fare. E poi la cucina a livello professionale è durissima, dimentichiamoci la visione romantica del ristorante in Francia, con quindici coperti in campagna, che prendi la bici col tuo cestino e vai a raccogliere i funghi nella foresta, non è assolutamente quello. A me non interessa lavorare professionalmente in cucina, mi piace tanto andare al ristorante, mi piace scriverne, ma non ho mai desiderato fare un corso di cucina professionale. Mi piace il pane, le consulenze per i ristoranti sono quelle che mi divertono di più, perché lì viene fuori il mio interesse per la ristorazione, nel senso di capire come incastrare una specifica offerta di pane in un menù che ha già una personalità molto forte: quella è una sfida che mi stimola molto.
Cosa significa fare consulenza in ambito panificazione?
Quando lavori con i forni aiuti ad aprire il forno, progetti il laboratorio, dici che attrezzature devono comprare, fai la selezione delle farine, la ricettazione e metti a punto la prima linea di prodotto, così loro possono continuare a portarla avanti. Poi, secondo gli accordi che hai preso, ci sono dei checkpoint, per cui torni periodicamente a vedere se aggiungere o togliere cose, oppure li lasci e vanno avanti da soli. Per il ristorante tutti chiedono lo sviluppo della pagnotta. Ora si usa servire la pagnotta da meditazione, l’ha reintrodotta Romito e tutti sono andati dietro a questo concetto. Alcune volte si può lavorare su un pane di accompagnamento ad una portata specifica, oppure su uno che se ne stacchi, trattandolo come fosse un altro ingrediente, facendolo dialogare in contrappunto al menù.
Da quello che emerge dai tuoi libri l’elemento narrativo nel tuo racconto del cibo è imprescindibile: tieni ancora il diario dei pranzi e delle cene?
No, non lo scrivo più. Sono molto cambiata nel mio rapporto con l’esperienza al ristorante. C’è stato un periodo, subito dopo aver scritto Dieci lezioni di cucina5 insieme a Romito, in cui stavo imparando molto, sulla degustazione al ristorante, sulla lettura del piatto ed era normale, per me che amo scrivere, ma ho anche una formazione scientifica, prendere note, fare schemi, una cosa che ovviamente mi sono portata nel diario di panificazione. Facevo le foto, le analisi dei piatti, poi questa cosa l’ho persa. Un po’ perché ho imparato e poi perché ho capito che mi distoglieva dall’esperienza in sé. Ormai avendo virato sempre più sulle consulenze di panificazione e sui libri, essendomi sempre più sfilata dal giornalismo enogastronomico vero e proprio, credo sia anche poco necessario. Cerco di vivere l’esperienza più da consumatore esperto che da tecnico e me la godo molto di più.
Hai compiuto un “viaggio del pane” attraverso le pagine dei libri. Qual è stato il passaggio da Altri Grani, altri pani, che si legge come un romanzo, a La formula del pane che è più un manuale?
Da una parte ho avuto io stessa questa folgorazione, nella mia vita personale, passando da una panificazione domestica, che si rifaceva alla ricetta del singolo tipo di pane, a panificare nel laboratorio del panificio e vedere come si lavora lì. Questo mi ha fatto riflettere e tornare indietro alla primissima forma di metodo di panificazione che avevo imparato cioè quello di Tartine, che è, a tutti gli effetti, un metodo. Mi sono chiesta come fossi riuscita a passare da zero pane a fare il pane in una settimana ed era stato perché avevo studiato maniacalmente quelle prime quaranta pagine del libro Tartine Bread6. Poi in una calda sera primaverile romana, incontratami con l’amico Marco Bolasco (giornalista e autore enogastronomico, prima in Slow Food, poi dal 2014 direttore dell’area enogastronomica di Giunti editore, attualmente direttore della divisione illustrati sempre in Giunti, n.d.r.) lui mi chiese se avevo un’idea, un taglio, per un libro sul pane, e io dissi che avrei voluto svelare un segreto, soprattutto con i panificatori domestici in mente, alzare il velo e spiegare che invece di imparare quindici ricette, bastava fare poche cose. È quello che ha fatto Tartine per il country loaf di sourdough, un impasto madre da utilizzare in molti modi, perché gli americani, che sono molto più pratici di noi, avevano elaborato questo concetto, ma in Italia non esisteva ancora. Così Marco mi ha stimolato a provare diverse declinazioni e ad avere più di un metodo e abbiamo ragionato anche sull’alta idratazione e sull’impasto dolce arricchito. La verità è che chi legge La Formula del pane riesce a fare il pane dal libro perché è veramente il compendio di tutto quello che ho imparato in dieci anni, facendo consulenze, andando nei laboratori, parlando con gli amici, studiando altri libri. Il diario dei ristoranti ho smesso di tenerlo, ma i diari di panificazione no, e il mio percorso da autodidatta è stato pieno di momenti a-ah! e se quando arrivano questi momenti te li segni, e quando cominciano ad essere centinaia li colleghi e si incastrano, pensi a quanto sarebbe utile riunire tutto. Ed io continuo ad imparare. Sono stata proprio recentemente dagli amici di Tilde forno a vedere come fanno la molitura della farina fresca e con loro c’è sempre un bellissimo scambio di esperienze.
Osservando dall’esterno questo mondo della panificazione sembra proprio esistere una “comunità del pane”, è vero? Ed è un concetto che esiste anche nella ristorazione?
La comunità è incredibile. Superstarter, la serie di eventi, ideata con Alessandro Miocchi e Giuseppe Lo Iudice, che abbiamo organizzato per Retrobottega, fa leva proprio su questo: invitare persone dall’estero, che in Italia non hanno mai partecipato ad incontri di questo tipo. Cinque appuntamenti con protagonisti internazionali della scena del pane (si parte il 29 Aprile con Kobe Desramaults, gli altri ospiti saranno Monika Walecka, Pamela Yung, Josef Weghaupt ed Elena Reygadas, n.d.r.) durante i quali gli ospiti trascorreranno una settimana a Roma, facendo conoscere ognuno il proprio approccio al mondo della fermentazione naturale, senza regole fisse, sperimentando su offerte che varieranno dalla cena alla merenda, all’aperitivo, alla colazione o più cose insieme. Sarà molto divertente. Ma la comunità fa mille cose, ad Ottobre 2022 si sono riuniti nella regione dello Jura, con Pamela Yung, Sarah Owens e altri grandissimi panificatori e pizzaioli, per costruire un forno a legna nella tenuta vinicola biodinamica Maison Maenad. Questa cosa esiste anche nella ristorazione. Uno dei motivi per cui ho scritto The New Cucina Italiana è stato aver partecipato come cameriera in sala ad una cena da Trippa, in cui c’erano tutti questi bravissimi interpreti della nuova cucina italiana, che sono amici, si ritrovano, fanno eventi, si supportano, ed essere testimone della dinamica di quella sera mi ha mostrato chiaramente che ci fosse un movimento. Nel caso del pane posso offrire un’interpretazione sul perché il senso della comunità sia ancora più intenso ed è prima di tutto perché c’è di mezzo il grano. Sempre più i panificatori oggi hanno un rapporto diretto con la loro materia prima, molti addirittura la coltivano e questo fa sì che ci sia una rete molto stretta con gli agronomi, i contadini, mentre è vero che il cuoco ha un rapporto con l’ingrediente, ma ha anche a fare con molti più ingredienti. La comunità dei panificatori è anche più mobile, più legata alla dimensione contadina, e questo favorisce lo spostamento e il viaggio, molto di più rispetto a quello che succede ai cuochi, che spesso sono vincolati all’avere un loro ristorante. Tanti panificatori fanno la scelta di muoversi, di aprire magari quattro giorni a settimana per poi andare a trovare colleghi, produttori. In questo senso la comunità del pane, per le sue dinamiche, è molto simile a quella del vino naturale.
Apriamo il cassetto: un sogno piccolo e un sogno grande.
Un sogno piccolo: vorrei un cane, anzi due. Un cirneco dell’Etna e un hovawart, che è un incrocio tra un pastore tedesco e un rottweiler. Un sogno grande: vorrei riuscire a trovare questo spazio in campagna in cui aggregare la comunità di cui abbiamo parlato, organizzare retreat, anche una sorta di scuola. Una scuola di panificazione focalizzata sui grani evolutivi e sulle vecchie varietà di grano e su una visione contemporanea del pane italiano, un po’ come L’ École internationale de boulangerie di Thomas Chambelland, che è un posto minuscolo, ma a cui ormai arrivano da tutto il mondo perché è proprio iper specializzato. In Italia con tutta la tradizione di grani meravigliosi che abbiamo, ancora una scuola di questo tipo non esiste. Un polo in campagna, dove ci sia la coltivazione dei grani, un ragionamento sull’evoluzione di quella che è la nostra identità di panificazione, il nostro approccio, e dove far convergere periodicamente questi grandi interpreti da tutto il mondo, con ritrovi, laboratori, piccoli festival. Questo mi piacerebbe molto.
Copio spudoratamente questa domanda dalla mia rubrica preferita di Bon Appétit magazine. La tua “cena immaginaria”: tre invitati, di qualunque ambito o epoca, chi inviteresti e cosa cucineresti per loro.
Invito Reinhold Messner, David Attenborough e Jane Goodall, perché in questo momento della mia vita ho voglia di trascorrere tempo di qualità parlando di e pensando alla natura e al pianeta. Per loro cucinerei un menù 100% vegetale, ma di grande conforto. Delle matzo ball fatte con il mio pane e immerse in un delizioso brodo, delle bistecche di broccolo romanesco impanate e fritte, un'insalata di puntarelle condita come si deve, cose così.
Domanda “hot”: pizza margherita o spaghetti al pomodoro?
È molto difficile per me scegliere. Come canta De Gregori “come si giudica un giocatore”: quando si giudica un cuoco lo si fa dagli spaghetti al pomodoro, e un pizzaiolo dalla margherita. Il cuore panificante mi farebbe dire pizza, però allo stesso tempo l’esperienza che ho fatto l’anno scorso con Montanari e l’allestimento della mostra Gusto! e la centralità che lui ha dato alla storia meravigliosa dello spaghetto al pomodoro, come piatto archetipo di cucina italiana, quintessenzialmente italiano, che poi italiano negli ingredienti non è, e che racconta questa stratificazione, la contaminazione storica della nostra cucina, me li ha fatti veramente riscoprire. Per cui è un piatto che per me ha un significato di cultura del cibo altissimo, dall’anno scorso ancora di più, e quindi devo dirti spaghetti al pomodoro.
3 libri (non solo) di cucina consigliati da Laura:
Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, 2022
Perché insegna a ragionare sulla parola e contiene una scrittura di scintillante, precisissima, economica bellezza.
Marci R. Baranski, The Globalization of Wheat: a Critical History of the Green Revolution, University of Pittsburgh Press, 2022
Perché, come recita il sottotitolo, è una "rilettura critica della Rivoluzione Verde" - aggiungo io - lucidissima, piena di informazioni e collegamenti che non solo gli addetti ai lavori, ma anche i consumatori consapevoli non possono più ignorare oggi (non a caso me l'ha consigliato il Prof. Ceccarelli).
Massimo Montanari, Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro, Laterza, 2019
Perché in maniera sintetica, brillante e ironica svela come il piatto ritenuto da tutti "quintessenzialmente italiano" si regga in realtà su ingredienti non italiani nell'origine, il simbolo di una cucina culturalmente stratificata che noi vorremmo immobile ma che a ben guardare comincia a cambiare nel momento in cui nasce.
Fuori menù:
Gli eventi di Superstarter iniziano il 29 Aprile e continueranno fino a Dicembre, tenete d’occhio il profilo di Retrobottega per prenotarli
Uno degli ultimi articoli di Laura per Food&Wine ha come protagonista il risotto e le sue reinterpretazioni da parte degli chef italiani
La chiacchierata con Laura mi ha lasciato un’energia incredibile, un desiderio di progettare, crescere, migliorarmi. Mi ha anche confermato quello che ormai sospettavo da un po’ e cioè che le più grandi professioniste sono spesso anche le più generose con il loro sapere e la loro esperienza. Ringrazio Laura per il tempo che mi ha dedicato, per quanto ha raccontato di sé e per aver trovato sempre tre minuti, anche in mezzo a tremila impegni.
Grazie a tutti voi, che spero sarete ispirati e stimolati da queste interviste e non troppo provati dalla loro lunghezza. Mi chiamavano Brevità.
Michael Pollan, Cotto, Adelphi, 2020
Laura Lazzaroni, Altri grani, altri pani, Guido Tommasi Editore, 2017
Laura Lazzaroni, The New Cucina Italiana: What to Eat, What to Cook and Who to Know in Italian Cuisine Today, Rizzoli New York, 2021
Laura Lazzaroni, La formula del pane. Il metodo per imparare la panificazione domestica, Giunti, 2021
Niko Romito, Laura Lazzaroni, Dieci lezioni di cucina, Giunti, 2017
Chad Robertson, Tartine Bread, Chronicle Books, 2010
Credo che leggerò questa intervista più volte per non perdere nulla di quello che trasmette. Grazie 🙏
Una delle interviste più interessanti e ispiranti degli ultimi tempi: grazie mille!