Sfoglia chiacchiera con Irene Fossa
gastronoma, autrice, responsabile degli eventi presso Laboratorio Aperto e Opificio Terrae, Parma
«Sono molto affascinata dalla storia legata al piatto, perché il piatto non è mai un piatto e basta»
Irene Fossa è un’osservatrice. Anche quando dovrebbe essere lei al centro dell’attenzione, come ora, che la sto intervistando, ti accorgi che ti sta scrutando, sta cercando di carpire ogni dettaglio, con gli occhi chiari spalancati, un po’ da bambina. Le domande sono rivolte a lei, ma lei attende, e ascolta. E questa sua predisposizione all’ascolto, questo suo genuino interesse per quello che gli altri hanno da raccontare, la capacità di mettersi a servizio delle storie piccole, quelle che abitano luoghi che molti dimenticano di andare a visitare, sono la sua forza e il motore del suo lavoro.
Nel 2021 viene pubblicato “Il brodo di Natale in Emilia Romagna” un saggio e libro di cucina che raccoglie mappe, ricette e contributi di autori, giornalisti, osti e gastronomi, per raccontare la tradizione emiliano-romagnola del brodo abbinato alla pasta ripiena, in tutte le sue declinazioni territoriali. È un libro inusuale, perché non è pubblicato da una “vera” casa editrice, è stato finanziato con una campagna di crowdfunding e viene promosso e distribuito direttamente dalla stessa Irene e dal suo co-autore Mattia Fiandaca. È inusuale perché, pur essendo pieno di spunti di riflessione su un cibo intimo e di conforto come il brodo, su una grande tradizione regionale e allo stesso tempo italiana, è pervaso da un senso di stupore, dalla curiosità degli stessi autori, che traspare attraverso ogni racconto.
Un potente desiderio di scoperta anima Irene, che convive con un grandissimo rispetto, della cultura, delle persone, dei ricordi. Ogni tanto questa curiosità è sedata da un certo pudore, dalla sua delicatezza, ma lo vedi che è lì, che lampeggia dietro gli occhi, che si illumina quando ti racconta i suoi primi passi nel mondo del cibo, nella scoperta della gastronomia come strada possibile. «Ho iniziato ad organizzare delle cene con gli amici, delle serate a tema e poi c’è stata l’esperienza dell’home restaurant e i corsi di cucina per stranieri. Secondo me quando mangi, quando stai bene, viene sempre tutto facile».
Irene ha una tradizione familiare di grandi tavolate, di figure femminili che “reggono” la casa, elemento culturale imprescindibile in Emilia Romagna, e che forse hanno contribuito a formare l’interesse e la capacità di collezionare storie. Irene non cerca visibilità fine a se stessa, non cerca l’autocelebrazione, non ama parlare di sé: vuole che siano le storie di cibo che raccoglie a parlare, che siano i luoghi, le tradizioni uniche, le persone speciali. Vuole, e riesce benissimo a trasmettere il suo interesse, la sua passione, senza mettersi al centro, ma in questa sua elegante calma si muove, agisce. Immagina progetti, collega persone, fa germogliare semi attraverso il cibo e la parola, mostrando senza snobismo, senza pretenziosità, che il cibo è un patrimonio di tutti, che è cultura alta che parte dal basso, che tutti devono avere la possibilità di raccontare il proprio cibo e scoprire quello degli altri.
La cultura del cibo: perché?
Perché è la nostra cultura, è il modo più facile per parlare di noi. Io non sono una che parla molto, mi sono sempre espressa attraverso altre cose, attraverso la scrittura, la comunicazione grafica. E il cibo è un altro di quei mezzi con cui non devi per forza parlare, ma riesci comunque a spiegarti bene: per me la cultura del cibo è parlare di sé in un altro modo. Un modo di esprimersi senza parole. Non ci sono arrivata in maniera lineare, la passione per il cibo mi è venuta quando ero all’università e ho lavorato due anni in una trattoria come cameriera. Non avevo mai cucinato niente, facevo delle schifezze tipo pasta con il salmone affumicato, aglio bruciato. Lavorando in trattoria ho iniziato a mettere il naso nelle preparazioni dei piatti, nell’organizzazione della cucina, che era comunque di tipo familiare, e lì si è scatenata la passione e ho iniziato ad organizzare cene con i miei amici, avevo il desiderio di proporre sempre cose nuove ed ho pensato “se non mi scrivo tutto poi me lo scordo”, così mi è venuta l’idea di aprire un blog. Tuportadabere è nato nel 2017, quando ne esistevano già un miliardo, quindi non è stata un’idea rivoluzionaria, ma mi ha permesso di esercitarmi nella scrittura relativa alla gastronomia, nello scrivere non semplicemente una ricetta, ma costruirci intorno una storia. Dopo il master COMET (Cultura, Organizzazione e Marketing dell’Enogastronomia Territoriale) non potendo fare lo stage previsto, perché lavoravo già in Comune, l’assessore che c’era in quel momento mi ha proposto di fare una ricerca sulle trattorie di Parma e provincia con una storia di almeno 50 anni, sempre condotte dalla stessa famiglia, di generazione in generazione, e che fossero posti diciamo “alla buona”, quindi con un menù parmigiano non particolarmente costoso o pretenzioso (questa ricerca è convogliata nel libro “Trattorie come una volta. Parma” pubblicato dal Comune di Parma nel 2021, n.d.r.). È stato in quel momento che ho capito quanto mi piacesse scrivere di cibo, ma non fare recensioni. In realtà non ho mangiato da nessuna parte, non mi hanno offerto niente, solo dei gran caffè. Mi interessava raccontare le storie di queste famiglie, che poi nel territorio di Parma, ad esempio nella Bassa, si mescolavano a personaggi come Giovannino Guareschi (il famosissimo autore di Don Camillo n.d.r.) a Giuseppe Verdi, che è vissuto in quelle zone, la parte più di montagna era la zona di Attilio Bertolucci (poeta, padre del regista Bernardo n.d.r.). E lì ti rendi conto che sì c’è la storia di un tortello, ma intorno al cibo si forma tutta un’altra storia da raccontare, che non si limita al cibo, ma si espande ad una città, ad un territorio.
Il tuo racconto del cibo, infatti, è molto legato al territorio: quali sono gli aspetti positivi e negativi di vivere in Emilia Romagna se si vuole parlare di cibo?
Sento molto parlare della città di Parma come capitale del cibo, ma da parmigiana non ti saprei consigliare un posto in città in cui andare a mangiare. Per me è una sofferenza, perché sono cresciuta con una cucina familiare veramente buona, avevo una prozia che era proprio un simbolo per noi, un faro; poi vai al ristorante e ti sembra sempre che ci sia quel non so che di fregatura, di ammiccamento turistico, quindi faccio molta fatica ad andare in centro a mangiare perché sono pochi i posti che portano avanti un discorso onesto. Spesso in alcuni luoghi ti servono dei prodotti, dei salumi in particolare, che non sono buoni, proprio a Parma, e questo è un peccato. Dall’altra parte, però, c’è tantissimo da raccontare, tantissimo da scoprire. Solo sei mesi fa sono tornata a far visita ad un caseificio ed è un’esperienza bellissima, che molti non hanno fatto, scoprire come si fa il Parmigiano. Vivere qui ti dà molti spunti e materiale, ma il lato negativo è che alla fine la qualità te la devi comunque andare a cercare, non è automatica.
Un ricordo di cucina di quando eri piccola.
Mi sembra sempre un po’ assurdo che abbia molti ricordi legati al cucinare con mia mamma, visto che lei non è mai stata una gran cuoca. Quando facevamo insieme gli gnocchi è un’immagine che ho proprio vividissima. Il ricordo più bello, però, è di quando andavamo a casa di questa zia, che non si è mai sposata, e riuniva tutti a casa sua e insieme alle altre zie, tutte signore sui 70, 80 anni, preparavamo gli anolini per Natale. Stavamo lì delle ore, senza riscaldamento, mia zia metteva una pentola a bollire sul fuoco per scaldarci e ci raccontavamo un sacco di cose, ridevamo, queste signore nate intorno agli anni ’30, che avevano vissuto proprio la Storia e avevano tantissimo da raccontare. Era la cosa più bella.
Come sei arrivata a promuovere la cultura del cibo con il Laboratorio Aperto a Parma?
Lavoro in comune a Parma dal 2008, ho sempre lavorato alla cultura, dedicandomi alla parte organizzativa, ad esempio dei grandi concerti di Capodanno e del 25 Aprile, che a Parma sono ricorrenze molto sentite. Quando è nato il progetto del Laboratorio Aperto (una piattaforma che il Comune ha scelto di dedicare alla “cultura dell’eccellenza agroalimentare” n.d.r.) mi hanno coinvolto perché avevo appena finito il Master COMET. La cosa più bella è che siamo riusciti a dare un’impronta seria, non di un luogo in cui si mangia e basta. La gente ha capito, sta attenta, siamo riusciti a far passare il concetto che anche il cibo è qualcosa di attinente alla cultura. Ci sono sempre più ragazzi giovani che partecipano. Gli eventi sono tutti gratuiti, anche se ora stiamo introducendo dei corsi di cucina a pagamento con Alessia Morabito, una chef di Modena che collabora anche con Luca Cesari.
Nel “Brodo” racconti di non aver dormito la notte prima di tenere un corso sugli anolini, perché sono un terreno minato. Questo grande rispetto per la tradizione da dove viene, come l’hai maturato?
Sono una persona abbastanza rispettosa in tutto. È molto difficile che io mi inserisca in qualcosa che c’è già dicendo “lo fate male”. Sono sempre un po’ timida, non mi intrometto nelle conversazioni, se le cose sono state fatte bene fino ad ora, sono andate bene senza di me, tendo sempre a pensare che andranno ancora bene senza il mio intervento. Gli anolini, ad esempio, rientrano in quelle cose che ci toccano profondamente, che noi ce ne rendiamo conto o meno, si vanno a toccare delle storie personali, ed una persona vede mettere in discussione qualcosa che ha sempre pensato fosse fatta in un altro modo. Gli anolini poi, sono davvero un campo di battaglia! Mi faccio sempre mille problemi quando devo inserirmi in queste tradizioni così radicate e, infatti, in quel corso ho risolto dicendo subito, prima di iniziare “Questa è la mia ricetta, sicuramente la vostra è più buona”.
Ultimamente da più fonti si sente parlare di ritorno alla tradizione in ambito gastronomico, anche in relazione al discorso sulla sostenibilità di un certo tipo di ristorazione. In Emilia Romagna ci sono 21 ristoranti stellati. Cosa ne pensi?
Credo che per tante persone la tradizione sia una novità. Per qualcuno la tradizione può essere più dirompente di mangiare piatti che forse perdono un po’ il contatto con la realtà. Noi veniamo dalla farina e dalle uova, che messe insieme fanno la pasta. Anche Bottura, in realtà, parte da una cucina tradizionale. All’estero la tradizione la sentono in modo diverso rispetto a noi e forse è venuto il momento di riprendere le fila del discorso, di rimettersi alla prova, anche magari tornando alle tradizioni più vicine al territorio, che per tanti sono la novità. È molto bello che al Laboratorio Aperto vengano tanti giovani sotto i 30 anni, che vogliono proprio imparare a fare la sfoglia, che è la nostra identità, perché forse sono figli di una generazione che ha cucinato poco e quindi se a tirare la sfoglia non ti insegna la nonna, non ti insegna la mamma, ti può insegnare la Rina (Poletti, n.d.r.) ma poi è l’ultima occasione. Il palato, il gusto sono molto legati ai ricordi, alla crescita, sono legatissimi allo sviluppo, come un bambino che non viene abituato a leggere, probabilmente a vent’anni non diventerà da solo un gran lettore, sono abitudini che se non prendi da piccolo è più difficile sviluppare più avanti. La tradizione, però, va affrontata senza attaccamento morboso, come dice sempre Mattia Fiandaca (che ci tiene a ricordarmi quanto è giovane) non si può essere nostalgici! Ma si può voler difendere una cosa che ci contraddistingue. E volerla trasmettere.
“Il Brodo” è un progetto partito dal basso, finanziato con una campagna di crowdfunding, che si è mosso su canali editoriali non convenzionali. Secondo te qual è lo stato dell’editoria food in Italia?
Secondo me in questo momento c’è grande richiesta e sta uscendo di tutto. Molte sono anche operazioni di marketing per vendere più libri: si prendono personaggi famosi, che piacciono trasversalmente e gli si mettono in bocca ricette magari sviluppate da altri. E ci sono libri bellissimi che invece non vengono tradotti. Noi durante il tour siamo sempre stati accolti molto bene, forse perché ci siamo appoggiati a realtà che vanno oltre queste distinzioni di livello. Penso anche che vedere due persone giovani che parlano di qualcosa di così tradizionale possa fare un po’ strano e non tutti la prendano bene. Anche l’aver pubblicato il libro senza una casa editrice vera e propria non è mai ben visto, di solito si pensa che uno si pubblica il libro da solo perché nessuno gliel’ha voluto pubblicare. Invece tutti hanno capito lo spirito dell’operazione, il coinvolgimento che abbiamo voluto mettere in atto, a partire dal basso. Le persone hanno iniziato a seguirci dal nulla, ma si sentiva che erano contente di farlo.
Ad un certo punto, però, del libro si è parlato ovunque.
Angela Frenda aveva fatto una diretta del
e aveva detto “la settimana prossima vorrei parlarvi di un libro che mi è arrivato ieri, di due autori sconosciuti” e io sono corsa a vedere la ricevuta della spedizione ed effettivamente il libro era arrivato proprio il giorno prima e mi sono detta “dai non siamo noi, non possiamo essere noi”. E invece ne hanno parlato anche su Cook, su Il Gusto di Repubblica e su La Stampa. Ancora (non capisco bene perché) mi sembra un sogno! Penso che il libro abbia avuto la possibilità di essere curato molto di più di uno che consegni alla casa editrice e devi per forza accettare dei compromessi: magari avrebbero imposto la carta lucida o una copertina rigida, che io odio. Se fosse uscito con una casa editrice probabilmente non avrebbe avuto tutte le cure che gli abbiamo potuto dare noi. Non avendo una casa editrice alle spalle sei costretto a tenere il prezzo un po’ più alto e quindi credo si debba offrire un prodotto che le persone vogliono davvero conservare, quasi da collezione.Pensi ci sia ancora spazio per la carta, per questo tipo di approfondimento, per questa cura?
Secondo me sì, perché rimane comunque un’esperienza diversa, una cosa in più rispetto a quello che si trova online. Se voglio approfondire un personaggio, un autore, io lo faccio sempre sulla carta. Avendo curato l’impaginazione di libri (l’ultimo “Malvasia, un diario mediterraneo” di Paolo Tegoni, Terrae, 2022, n.d.r.) mi piace vedere come sono realizzati gli altri, quali spunti si possono prendere. Il Brodo, alla fine, ha ottenuto un risultato stupendo, inaspettato. In crowdfunding avevamo venduto sulle 200 copie, ma poi è esploso e quest’estate abbiamo superato le 850 copie, che è un risultato davvero pazzesco.
Cosa leggi? Dove trovi le tue ispirazioni?
Ormai sono un’accumulatrice seriale di libri di cucina, dal lockdown sono diventata inarrestabile. Le biografie, le autobiografie mi piacciono molto, di cuochi, ma anche di musicisti, quella di Keith Richards ad esempio, è proprio un genere che mi piace. Preferisco sempre un libro in cui oltre alla ricetta c’è qualcosa in più, un po’ quello che abbiamo fatto con Il Brodo. Durante il lockdown ho letto tutto di, e su, Julia Child e lei, al di là della cucina, ti dà proprio una visione della vita. Ho sempre letto Dispensa magazine e L’Integrale e recentemente ho comprato alcune riviste da Frab’s a Forlì. Ho scoperto online questa rivista di cucina milanese, in edizione limitata, “Mangia bev e taz. E vivi in santa pas” che raccoglie racconti sulle osterie storiche, le immagini delle insegne antiche, manifesti pubblicitari, ricette, poesie, foto: è un po’ la summa di tutto quello che piace a me. Adesso sto anche recuperando Petronilla, Ada Boni. Il Talismano me l’ha dato la cugina di mia mamma a cui era stato regalato per il matrimonio.
Ci puoi raccontare un tuo sogno nel cassetto?
Vorrei continuare a scrivere di cucina e di storie, un sogno specifico al momento non saprei dirlo, come non sapevo che avrei voluto scrivere un libro sul brodo se me lo avessi chiesto tre anni fa. Da quando ho scritto quello sulle trattorie ho capito quanto mi piacciono le storie dei produttori, dei piatti. Mi piacerebbe affrontare il tema delle micro produzioni: piatti che si trovano in un solo luogo. Vicino Parma, ad esempio, c’è un paese Colorno, in cui fanno un piatto che si trova solo lì, già se vai a Sorbolo, che è il paese più vicino, non lo fanno. Si chiama tortél dóls ed è un tortello che si mangia come primo, condito con un po’ di pomodoro, ma con il ripieno dolce. A Colorno c’è un’associazione che si spende per organizzare ogni anno il "Galà del tortél dóls” quindi mi piacerebbe anche raccontare la storia di queste associazioni, di queste persone, senza le quali questi piatti probabilmente non esisterebbero più. Creare una mappa delle micro produzioni.
Domanda “hot”: pastasciutta o pasta ripiena?
Pasta ripiena. Tortelli d’erbetta. Sono troppo buoni, non me ne stancherò mai. Non ho neanche la macchina per fare la sfoglia, però ogni tanto la preparo, la tiro col matterello, solo per due persone, per mangiarla la sera. Il tortello d’erbetta è anche un grande classico legato alla storia di San Giovanni e alla festa del 24 giugno. La vigilia di San Giovanni a Parma c’è la tradizione di mangiare questi tortelli aspettando la rugiada, perché la rugiada della notte di San Giovanni si dice abbia dei poteri benefici e quindi i parmigiani come la festeggiano? Mangiando, ovviamente. Si dice proprio “aspettare la rugiada” e le associazioni, le pro loco, i ristoranti preparano questi tavoli all’aperto e si mangiano i tortelli d’erbetta aspettando la mezzanotte. È una tradizione bellissima e i tortelli mi mancherebbero tantissimo se dovessi tradirli per degli spaghetti. Ecco, ora mi è venuta voglia di spaghetti al pomodoro.
3 libri di cucina consigliati da Irene:
Isabella Pedicini, Ricette umorali. In principio era la pasta al tonno…, Fazi Editore, 2012 (link)
Riordinando ho ritrovato questo libro delizioso scritto da Isabella Pedicini nel 2012, senza dubbio antesignana del food writing almeno in Italia! Un divertente manuale della studentessa fuorisede che si trova a cucinare per sé e per gli altri, le ricette sono organizzate in base all’umore e le storie scorrono talvolta buffe e imbranate, altre profonde, tra gioia e paura, entusiasmi e avvilimenti con lo scopo di ricordare al lettore che "saper rigirare una frittata, a tavola come nella vita, è un’arte sopraffina".
Alessia Serafini, La main à la pâte: Lundi, c’est pas ravioli, Editions de l’Epure, 2016 (link)
Alessia è nata a Ferrara e vive a Parigi. Come fare a esprimere una nostalgia gastronomica tutta di noi emiliano-romagnoli fatta di ricordi di tagliatelle, cappelletti e maltagliati? Disegnandoli. A modo suo. Con una poesia e un amore tali che i francesi non potevano far altro che innamorarsene.
Amanda Yee, Friends. Il ricettario ufficiale, Panini Comics, 2020 (link)
La serie tv Friends è il simbolo della mia generazione e questo ricettario racchiude oltre settanta delle ricette che, in dieci anni di programmazione, sono passate sulle tavole dei nostri amici (ovviamente calcolate per sei persone). Che sia venuto il momento finalmente di provare l'English Trifle di Rachel?
Fuori menù:
un percorso di sfide tra sapori delle eccellenze gastronomiche italiane e i luoghi che le producono: si chiama “Italia a tavola: pari o dispari?” programma radiofonico condotto dai giornalisti Marco Castoro e Eleonora Cozzella. Tutte le puntate su RaiPlaySound.
Dinner Club è stato secondo me il programma tv sul cibo più interessante e divertente degli ultimi anni. È uscita da poco la nuova stagione, su Prime Video.
Ho sempre saputo che le interviste dovevano essere una parte fondamentale di questa newsletter, ma non avevo ben intuito quanto mi avrebbero insegnato e fatto riflettere sugli argomenti di cui amo parlare, sul modo in cui parlarne. Ogni chiacchierata è un’emozione e una scoperta e il mio ringraziamento stavolta è tutto per Irene Fossa, per la sua gentilezza e per il lavoro che porta avanti ogni giorno.
Ci rivediamo il 9 Marzo (che incidentalmente è anche il mio onomastico, giusto per dire che Francesca Romana è un nome legittimo con pure una Santa) sempre nelle vostre affollatissime caselle mail e sulla pagina Substack di
dove, vi ricordo, gli abbonati trovano sempre tutto l'Archivio dei numeri precedenti. Buona serata e buon MasterChef (dai, lo so che lo guardate)!
Fantastica intervista, grazie a entrambe. Corro in cucina affamata di pasta fresca e ispiratissima!
che bella quest'intervista con Irene! Il suo Brodo di Natale è stata una bellissima scoperta, un libro curato da conservare come un tesoro! E che belli suoi libri consigliati, quello di Friends penso che lo adorerei, visto che ero un'appassionata di Friends, tanto da registrare ogni singola puntata su vecchi vis per potermele poi rivedere!