Sfoglia chiacchiera con Giulia Scarpaleggia
food writer, autrice di libri di cucina e curatrice della newsletter Letters from Tuscany
«Spiegare ad un diverso pubblico la tua cucina ti rende più curiosa, più interessata, ti fa rendere conto della ricchezza che hai sotto mano e che forse non valuti abbastanza.»
Le mani che tagliano, sistemano, preparano. Le mani che reggono un piatto gustoso, che solo a guardarlo si attiva la salivazione. Le mani che spezzano, spalmano, scrivono, sul tavolo affollato, tra borse del mercato, barattoli da sterilizzare, libri e quaderni pieni di appunti. Se penso a
mi vengono in mente subito le sue mani, le ho viste fotografate mille volte, molto più spesso del sorriso allegro, che si allarga immediatamente quando inizia a raccontarti gli ingredienti trovati al mercato o gli ultimi libri di cucina che sta studiando.Scorrendo tra le foto del suo profilo Instagram Giulia compare raramente in primo piano, ma la sua personalità si intravede in ogni scatto, in ogni ricetta, in ogni alba della campagna senese che sembra uscita da un film di Bertolucci. E la domanda che non posso non farmi è: come può una persona così timida e riservata, che tiene tantissimo al proprio spazio privato, aver costruito per sé un lavoro in cui accoglie, virtualmente e fisicamente, tante persone nel luogo più intimo di tutti, cioè la propria cucina? Più di 7000 persone in tutto il mondo leggono ogni settimana quello che Giulia condivide; il racconto della sua quotidianità e del suo cibo, che da quattordici anni le occupa i pensieri e le mani.
Quello che mi è stato chiaro dopo la nostra lunga (lo so, ma mettetevi comodi che ne vale la pena) chiacchierata è l’urgenza di condividere la sua più grande passione, l’esigenza di esternare il percorso di scoperta della propria terra, che è diventato, inevitabilmente, scoperta di se stessa.
Un percorso non privo di dubbi, che Giulia racconta con abbagliante onestà, senza fare mistero di come la timidezza l’abbia frenata in alcune occasioni, di come la scoperta del mondo anglosassone, e della lingua inglese, sia stata come la scoperta di un superpotere, la leva che ha scardinato quell’incertezza sul peso emotivo di una forte eredità familiare e sull’attaccamento alla propria terra, che spesso oggi sono visti come zavorre.
La competenza, la capacità di mettere altri mondi del cibo a servizio della nostra cucina tradizionale, il perfezionismo e il continuo porsi domande, cercando di migliorare ogni aspetto del suo lavoro, hanno formato la sua unicità e la rendono una voce importantissima del, e per, il food writing italiano. “Ma scrive in inglese!” Sì, ma pure in italiano. E c’è un motivo, ora non è che posso dire tutto, leggete, su.
La tradizione culinaria italiana in inglese: perché?
Quando ho aperto il blog (julskitchen.com) scrivevo principalmente di piatti non italiani. I primi post sono involtini primavera, cupcake, curry di verdure, tanti muffin, macaron. Ai tempi ero una couch surfer e avevo tanti amici internazionali che mi chiedevano di scrivere di cucina italiana in inglese, così dopo pochi mesi il blog è passato ad essere bilingue, in italiano e in inglese, e a parlare di cucina tradizionale. Quattordici anni fa c’era un fermento pazzesco e da un sito che non esiste più mi chiesero di scrivere degli articoli di cucina toscana in inglese. Questo mi spinse ad iniziare la rubrica “La cucina di nonna Minna”, Minna era il modo in cui chiamavo mia nonna Marcella da piccola, ed è così che ho iniziato a fare anche ricette di cucina toscana, e tutto è cominciato. Continuo a farlo perché è diventata un po’ la mia missione raccontare una cucina tradizionale a livello internazionale, una missione, una sfida e, dopo quattordici anni, anche un punto di orgoglio. Ho scelto l’inglese perché sono innamorata della lingua, e continuo a parlare della cucina tradizionale italiana perché vederla con gli occhi degli stranieri, come couch surfer prima e con i clienti dei corsi di cucina poi, me ne fa innamorare ogni volta. E poi è quello che mi piace mangiare.
Hai scritto «È stato difficile trovare il mio posto nel mondo». Chi era Giulia prima di essere Juls?
Mi sono laureata in Scienze della Comunicazione, ma per un po’ ho accarezzato l’idea di lavorare nel marketing dello sport. Gli anni dell’università non sono stati facilissimi a livello di relazioni, ma avevo questa fissa del nuoto, non tanto praticarlo, quanto tifare (Giulia crea nel 2004 il primo fan club italiano di Filippo Magnini, giuro, chiedetelo a lei!, n.d.r.) e questa cosa mi ha fatto un po’ uscire dal mio guscio, ho iniziato a viaggiare per seguire le gare, ho conosciuto tante persone con le quali sono ancora in contatto, e per alcuni anni è stata una cosa importante per me, anche se poi si cresce e cambiano gli interessi. Nonostante il mio percorso di studi non volevo diventare una marketing manager, non mi interessava trasferirmi a Milano, mi piaceva stare nel mio piccolo in campagna, ho pensato di trasferirmi all’estero, perché adoravo Londra, ma non ho mai avuto il coraggio. Tutto è andato al suo posto quando ho aperto il blog e mi sono resa conto che potevo unire queste mie due passioni: la lingua inglese e la cucina. Abitando in campagna ho sempre avuto la paura di essere provinciale. Entrando nel mondo dei blog, ancora di più, non essendo a Milano o a Roma, mi sentivo "quella di campagna”. Però il fatto di essere isolata mi ha sempre dato molto tempo per seguire le mie passioni. Da piccolina erano i libri, che divoravo, perché ero sola, quindi leggevo, poi sempre di più sono stati i blog e questi aggregatori, all’inizio addirittura MySpace. Sono sempre stati un modo per rimanere in contatto col mondo, dal mio mondo. Mi ricordo che una delle prime descrizioni del blog era “una cucina toscana che si affaccia sul mondo”. In realtà la mia prima volta all’estero è stata a diciassette anni, in Inghilterra per la vacanza studio. Quando ho iniziato a desiderare il blog vivevo con i miei, non avevo il fidanzato, né gruppi particolari di amici e i miei genitori mi hanno dato la possibilità, e la tranquillità, di poterci provare seriamente per un anno. E pian piano attraverso il blog ho trovato il mio posto nel mondo, che è qui, dove sono nata e cresciuta. Vivo in quella che era la casa di mia nonna, in pratica mi sono trasferita di sette metri quando sono andata via da casa dei miei. Adesso Giulia e Juls sono la stessa persona, perché le mie passioni mi hanno reso chi sono ora: anche nel mio tempo libero cucino, leggo libri di cucina, faccio passeggiate ascoltando podcast che riguardano la cucina. Le due anime si sono fuse e devo dire che si è risolto anche un altro binomio, quello tra “Giulia che fa i corsi” e “Giulia che scrive”, perché per un po’ ho sentito i corsi come un ripiego sullo scrivere, “non riesco a vivere scrivendo, allora faccio i corsi”. Ma mi sono resa conto che sono proprio i corsi a darmi le idee per scrivere, perché mi mettono in contatto con le persone, mi permettono di sviluppare la mia creatività in cucina.
Un ricordo di cucina di quando eri piccola.
Le fettine impanate, fritte e cotte nel pomodoro che ho mangiato per una vita, ma che ho veramente assaggiato, sentendone il sapore per la prima volta, dopo l’operazione alle adenoidi. Prima mangiavo, ma non sentivo gusti, non sentivo sapori. Dopo l’operazione, ora non so se questo sia un ricordo costruito o meno, ma ho proprio la sensazione di essere in cucina di mia nonna, ricordo su quale sedia, ricordo la luce che entrava dalla porta e lei che mi cucina queste fettine e io dico “ma sono buonissime!”. In quel momento ho assaggiato il cibo. E poi fare il ciambellone la domenica mattina con mia mamma, guardando i film della Disney. Questi sono i ricordi più forti, a cui sono più legata.
Chi sono le tue più grandi fonti di ispirazione?
Nella cucina mi ha influenzato moltissimo mia nonna, che in realtà è il mio opposto, perché prende un libro e segue pedissequamente la ricetta. Lei è una contadina, ha imparato a cucinare dalle signore che passavano di casa in casa quando c’era la trebbiatura o altre feste della campagna, però ha sempre avuto una grandissima passione per la lettura e ha sempre avuto cari i suoi libri di cucina come l’Artusi, e anche Suor Germana. Lascio fuori mia mamma per quello che riguarda la cucina perché a lei in realtà non piace, lei ama seguire l’orto, ha le sue rose, ma quello che mi ha insegnato è soprattutto la funzione curativa del cibo. Sei triste? Ti faccio un “teino” e passa tutto, sei un po’ under the weather, come direbbero gli inglesi, sottosopra? Facciamo un riso bianco che ti abbraccia lo “stomachino”. Questa idea che il cibo curasse, mettesse tutto a posto, me l’ha trasmessa lei. Jamie Oliver per me è una grande ispirazione, perché mi ha fatto capire che la cucina è accessibile a tutti e che è bello poterla rendere accessibile a tutti. Tessa Kiros per la scrittura, per la persona che è, per il modo in cui racconta le storie e il modo in cui vive le storie che racconta, per come riceve ispirazione dal mondo. E ci metterei anche Michelle Obama, una donna che si è forgiata il proprio cammino. Quando ho letto Becoming è stato potentissimo, perché mi ha fatto capire il ruolo che l’educazione, la formazione hanno nel crearsi il proprio destino.
Ci sono molti dualismi nel tuo lavoro, il più evidente è il bilinguismo. Come si trova un equilibrio, una voce, quando si è sempre in bilico tra due fronti?
Io ho due voci. Quella di quando scrivo in inglese e quella di quando scrivo in italiano. In italiano sono molto più scarna, più schietta, lo ero anche nelle fotografie, in inglese uso molti più aggettivi, forse influenzata dalle mie letture. L’idea di solito nasce in inglese, poi traduco in italiano e nella traduzione magari alcune cose si perdono, alcune spiegazioni che non sono necessarie. Per molti anni mi sono chiesta se abbandonare l’italiano, perché è una gran fatica scrivere due blog e due newsletter, ma non ho mai pensato di abbandonare l’inglese. Su Instagram scrivo quasi solo in inglese e spesso arrivano lamentele. La mia risposta è che i miei clienti principali, che frequentano i corsi di cucina, sono americani o comunque parlano inglese, quindi mi rivolgo al mio target. Mi rivolgo anche alle persone con cui ho più soddisfazione a parlare, perché c’è una curiosità maggiore, c’è meno pregiudizio su quello che racconto, mentre quando racconti la cucina italiana agli italiani la polemica è sempre dietro l’angolo. C’è un campanilismo sfrenato, che rende difficile scrivere della cucina di cui mi occupo io. Il mondo anglosassone è stato il mio rifugio, perché c’era anche più entusiasmo per quello che raccontavo. Scrivere per un pubblico straniero attiva tante connessioni in più, va oltre la ricetta, c’è più food writing, più racconto personale e, onestamente, mi sento più libera quando scrivo in inglese. Alla fine io sono questo. Sono cresciuta in campagna e ho avuto fin da subito una forte propensione all’estero, che mi ha fatto guardare al mio cibo tradizionale con un occhio più curioso e fresco, e ha fatto sì che riuscissi a produrre un certo tipo di contenuto andando al di là della semplice ricetta. Questo è il nostro lavoro, è un lavoro di famiglia, un business in cui lavoriamo Tommaso ed io, con cui paghiamo le bollette tutti i mesi e questo dualismo in realtà ci ha consentito di abbandonare quei clienti che chiedevano solo la ricettina, per creare invece dei contenuti validi sia per un pubblico italiano che per un pubblico internazionale. Per questo ci siamo concentrati sui corsi di cucina e sulla newsletter, che ci permettono una certa indipendenza. Spiegare la cucina tradizionale ad un pubblico internazionale è fare un doppio salto mortale: da una parte devi spiegare qualcosa che per te è quotidiano e per loro non lo è, dall’altra devi cercare di capire perché trovano così eccezionale questa cosa per te quotidiana. Vista così la cucina tradizionale diventa estremamente interessante e ti fa ragionare sulla sua storia: perché c’è un motivo se quelle ricette funzionavano, se proprio quelle erano le ricette che venivano portate avanti da una generazione all’altra, perché erano più sostenibili, o più facilmente replicabili.
Cos’è il cibo per te?
A me piace mangiare, quindi il cibo è nutrimento ed è piacere. Tutto è cominciato perché mia mamma non cucinava tutto quello che avrei voluto mangiare e quindi ho iniziato a prepararmi da sola queste cose. Da mia madre ho ereditato che il cibo è conforto, lo era nel mangiarlo e ora lo è nel cucinarlo. Il cibo è terapia. Io ho elaborato tutte le mie “paturnie”, le crisi, dall’adolescenza in poi, attraverso il cibo: affrontare le ricette mi permetteva di sbloccare delle cose. Il cibo è condivisione. Non so se si nota, ma io sono estremamente timida e riservata, il cibo è stato anche un modo per socializzare da un terreno di sicurezza e tranquillità. Il cibo è il mio modo preferito di trasmettere amore, di dire alle persone ti voglio bene.
L’arrivo di tua figlia come ha cambiato il tuo rapporto con il cibo?
Ha semplificato tantissimo il mio modo di cucinare. Mi è sempre piaciuto cucinare in maniera semplice, ma adesso ancora di più. Non ho mai avuto particolari dogmi, come tutto per forza di stagione, tutto biologico, tutto fatto in casa, ma ora ne ho anche meno. Con lei ho iniziato a fare i conti con il tempo e questo mi ha fatto mettere ancora di più nei panni di chi provava le mie ricette, perché non tutti hanno tempo di passare una giornata intera a cucinare, soprattutto quando hai una famiglia, un lavoro. Mi piace questo togliere quello che non è necessario, i passaggi superflui, gli ingredienti introvabili. E ogni volta che ti metti dei paletti la creatività lavora ancora di più: il paletto della semplicità mi permette di rendere al meglio quello che utilizzo nell’economia della ricetta.
Il tuo territorio, la tua famiglia sono componenti essenziali del tuo lavoro: cosa significa “lavorare da casa”, nel senso più stretto del termine?
Per sopravvivere come coppia c’è bisogno di non stare appiccicati tutto il giorno, quindi dopo un anno che Tommaso ed io vivevamo e lavoravamo insieme, abbiamo creato lo studio con una cucina separata, in cui facciamo i corsi di cucina e le fotografie. Per noi è difficilissimo perché lavoriamo insieme, da casa, sullo stesso progetto e prima di Livia non c’era soluzione di continuità. Parlavi continuamente di lavoro, lavoravi dopo cena, nei fine settimana. L’arrivo di Livia ha rotto gli equilibri ma ci ha anche permesso di mettere dei punti, per staccare e riposarci. Lavorare da casa per me è anche vivere in campagna e questo vuol dire essere molto in contatto con la natura, con l’orto, con il cambiamento delle stagioni. L’ispirazione nel mio quotidiano viene dal rapporto con la natura, che osservo continuamente. E poi ci sono i corsi di cucina che sono un modo per portare le persone a casa tua. Quando abbiamo creato lo studio abbiamo fatto in modo che somigliasse ad una cucina di casa, non ad una cucina industriale, proprio perché le persone adoravano vedere i libri, vedere come erano organizzate le cose, sentirsi accolti in casa.
Quattordici anni di blog, newsletter, podcast, libri: c’è mai stato un momento in cui hai detto basta, non ce la faccio più?
No, ma c’è stato un momento in cui ho detto “Basta, qualcosa va lasciato indietro”. Io ho lavorato per sei anni come dipendente e non tornerei mai indietro. In realtà ora lavoro più di prima, non ci si ferma mai, se il tuo progetto diventa il tuo lavoro principale ti impegna tantissimo, ma hai anche una libertà diversa, di fare quello che vuoi, con i tempi, più o meno, che vuoi e non c’è mai stato un momento in cui ho pensato non ce la faccio più. Però noi rimoduliamo costantemente il lavoro perché ci assomigli, perché segua i nostri ritmi, i ritmi della famiglia, e abbiamo capito di dover lasciare qualcosa. Come il podcast che ora è in pausa e il blog che rimane come archivio di ricette, e tutto ormai si è spostato sulla newsletter. Ci tengo che venga sempre aggiornato, ma bisogna ripensare a quello che si ha in mano, in base alle proprie necessità.
Apriamo il cassetto: un sogno piccolo e un sogno grande.
Un sogno grande è il James Beard Award. Bisogna pensare in grande, no? Magari non con Cucina Povera (il nuovo libro di Giulia, n.d.r.), ma prima o poi… I sogni piccoli sono progetti, quindi direi riuscire a rendere la newsletter ancora più capace di camminare sulle sue gambe, a farla diventare una fetta sempre più importante del nostro business. È un progetto per il quale ci siamo dati delle tappe e abbiamo l’aspettativa di arrivarci. Perché in qualche modo un sogno piccolo dipende da te, mentre il James Beard è più difficile, anche se ho già pensato a cosa mi metterei alla cerimonia! Già essere finalista mi andrebbe bene, così potrei partecipare alla cerimonia.
Copio spudoratamente questa domanda dalla mia rubrica preferita di Bon Appétit magazine. La tua “cena immaginaria”: tre invitati, di qualunque ambito o epoca, chi inviteresti e cosa cucineresti per loro.
Quando ero piccola sognavo di fare una cena con Pavarotti e Bud Spencer, sicura che due personaggi del genere avrebbero dato soddisfazione a tavola! Oggi, invece, mi piacerebbe cucinare per Tessa Kiros, Michelle Obama e Phil Rosenthal. Tessa perché è stata la mia prima ispirazione e ora è un'amica carissima che riesce sempre a sorprendermi con le sue ricette perfette, quindi vorrei ringraziarla invitandola a cena. Michelle Obama perché è un personaggio carismatico che ammiro molto, e che con l'orto alla Casa Bianca ha dimostrato un'attenzione al cibo particolare. E Phil Rosenthal perché mi fa ridere tantissimo con il suo Somebody Feed Phil, e perché è uno spasso e una soddisfazione vederlo così genuinamente entusiasta per quello che assaggia. Cosa cucinerei? Cose semplici, per non dover passare troppo tempo in cucina e potermi invece godere la loro compagnia. Pane e schiacciata fatti in casa, i miei carciofini sottolio e la giardiniera, e del pecorino toscano di Paugnano, un caseificio qui vicino, come aperitivo. Il piatto forte sarebbe la mia pappa al pomodoro, di cui vado molto fiera, e magari un piatto di verdure di stagione al forno. Aggiungiamo anche le melanzane alla parmigiana, via, che ci stanno sempre bene. Come dolce, una panna cotta allo yogurt con fragole e timo limone. Finiamo con un bicchierino di limoncello fatto in casa?
Domanda “hot”: cucina toscana o cucina pugliese?
Cucina toscana. Perché la conosco di più. Della cucina pugliese mi sto innamorando grazie a Tommaso, attraverso i racconti della sua famiglia. È un amore che cresce, come cresce quello per la cucina lucana, a cui sono legata da parte di mio nonno, ma se proprio devo scegliere dico cucina toscana. Nel mio dna c’è comunque una parte di cucina meridionale, che si vede nel modo in cui tratto le verdure, nell’uso dell’origano secco e nel mio amore per - chiudete gli occhi - il pane salato! Adoro la cultura che sta dietro il pane toscano, la cultura del riciclo, ma se penso ad una fetta di pane penso a quello di semola, o integrale, e salato.
3 libri di cucina consigliati da Giulia:
Tessa Kiros, Ricordi in cucina. Le ricette di una vita, Luxury Books, 2007
Il primissimo libro di Tessa che ho comprato, un libro che ha totalmente sconvolto la mia idea su cosa fossero i libri di cucina. Qui ci sono ricette, ricordi, racconti, foto che raccontano storie, e una scrittura calda, coinvolgente. La cosa bella è che le ricette di Tessa funzionano sempre, sono affidabili, memorabili direi. Su questo libro ho scritto a matita quando ho fatto le ricette e per quale occasione, è diventato parte delle tradizioni di famiglia.
Helena Attlee, The Land Where Lemons Grow: The Story of Italy and its Citrus, Penguin, 2015
Un viaggio attraverso il tempo e la storia, dai giardini delle ville medicee, con le loro collezioni di agrumi rari, alle terrazze di limoni a Amalfi, che oggi rischiano di scomparire, dalle limonaie del Lago di Garda alla Conca d’Oro in Sicilia, dove lo sviluppo della produzione di agrumi è strettamente legato all’ascesa della Mafia.
Helena Attlee esplora la diffusione di limoni, arance amare, bionde e rosse, cedri e bergamotti nella vita quotidiana, nella cultura e nella gastronomia del nostro paese. Leggendo le sue pagine si rimane storditi dall’odore di zagara e dalla sua prosa sensuale. È un libro che riesce ad essere informativo e evocativo allo stesso tempo.Molly Wizenberg, A Homemade Life: Stories and Recipes from My Kitchen Table, Simon & Schuster, 2010
Lei sì che sa come usare le parole! Leggera, intelligente, ironica e divertente, racconta ricette intrecciate ad episodi di vita quotidiana. Episodi che potrebbero sembrare banali agli occhi dei più, ma che riesce ad illuminare e raccontare da una prospettiva diversa, bastano poche pagine del suo libro o pochi post sul blog per sentirla già come un’amica, come una persona con la quale condividere ricordi ed emozioni. Presenta le ricette con immagini così reali e comuni alla sensibilità di tutti che alla fine ti trovi innamorato di quella ricetta come se l’avessi sempre mangiata, accade ogni volta. Il libro è anche stato tradotto in italiano con il titolo La mia vita fatta in casa.
Fuori menù:
dal 4 Aprile sarà disponibile Cucina Povera: The Italian Way of Transforming Humble Ingredients into Unforgettable Meals, edito da Artisan Books, scritto da Giulia e fotografato da suo marito Tommaso, un racconto imperdibile dell’arte italiana di rendere straordinaria la semplicità.
in questa newsletter ci sono tutti i retroscena di come è stato costruito il libro, e in quest’altra la bibliografia completa, per me uno degli aspetti più golosi di ogni libro di cucina.
Bene. Meno male che non faccio la versione audio della newsletter!
Grazie per essere arrivati in fondo, grazie a Giulia con cui so che potrei parlare ore di libri di cucina, di Londra e di carciofi (e probabilmente l’ho anche fatto), grazie a chi ama i libri, il cibo e le storie e, per questo, vorrà consigliare a tutti i suoi amici questa newsletter!
tornerà il 13 Aprile nella sua versione 3 libri di cucina, in cui saranno protagonisti dei libri che prendo dalla mia collezione quando ho voglia di primavera.
Quanto mi sono ritrovata nelle tue parole: ho avuto quasi l'impressione che tu mi conoscessi meglio di quanto mi conosca io. E quanto ci siamo divertiti e quanto abbiamo chiacchierato, anche al di là dell'intervista! Grazie a Substack e a quella schifezza di IG che ci ha fatte incontrare! :D
Che bellezza leggervi!