Quando parli con Luca tutto sembra così naturale. L’aver intravisto ancora giovane un futuro nella cucina, l’aver lavorato a Parigi, poi in Italia in un ristorante stellato, l’aver aperto a 35 anni il proprio ristorante che, dopo dieci anni e una pandemia di mezzo, festeggia un importante anniversario in buona salute. «Di questi tempi dieci anni sono tanti, in zona soprattutto, sono pochi i ristoranti che c’erano dieci anni fa e ancora sono qui».
Luca Ogliotti studia Giurisprudenza alla Sapienza di Roma quando decide di assecondare il suo interesse per il mondo del vino, iscrivendosi al corso da sommelier professionista dell’Associazione Italiana Sommelier. In quei due anni di corso, pur continuando a studiare, trova lavoro in un’enoteca, in cui inizia anche a cucinare qualche piatto per il servizio dell’aperitivo. Questo semplice approccio risveglia in lui una passione, che era lì, da sempre, fin da ragazzino, e fa nascere un’idea, una consapevolezza sul proprio futuro, che sarebbe potuto essere in una cucina.
Quando Luca racconta la sua storia professionale, non priva di soddisfazioni ed esperienze importanti, non sembra di parlare con uno chef, o almeno non con il tipo di persona che nel nostro immaginario odierno associamo alla figura dello chef. Non c’è investitura divina, non c’è quel fuoco che oscura tutto il resto, non c’è superflua romanticizzazione del mestiere, ma c’è una grande forza di volontà, impegno, voglia di fare e, anche se lui non lo dice, grande capacità e ottime intuizioni, lucide ed intelligenti, su se stesso e sull’ambiente in cui lavora.
La cucina: come?
Mentre lavoravo in enoteca ho continuato a studiare e mi sono laureato, ma sinceramente avevo capito che quella non era proprio una strada che avrei potuto percorrere. Ancora mi chiedo come ho fatto a studiare per certi esami, tremila pagine di libri, davvero non so come ci sia riuscito. Però avevo ventiquattro anni e nessuna esperienza in una cucina professionale, quindi l’unica possibilità era chiedere a qualcuno che conoscevo. Ho passato alcuni mesi a Parigi, nel ristorante di una persona di Roma, e quella è stata la mia prima esperienza. Tornato a Roma ho fatto dei colloqui per cercare qualcosa di adatto, ma non ero pronto, non ero autonomo, e ho capito che la cosa migliore sarebbe stata approfondire le mie conoscenze e fare un po’ di formazione. Così ho fatto un corso al Gambero Rosso, dove tra l’altro ho conosciuto Elena (Luca ed Elena sono sposati da quattordici anni e potrei essere un pochino di parte nel rimarcare che gran fortuna sia stata conoscerla, visto che è una delle mie più care amiche, n.d.r.).
Dopo il corso ho iniziato a lavorare in maniera più definitiva e ho anche fatto esperienze di livello più alto: ho curato l’apertura di un ristorante a Capalbio (il Cok, n.d.r.) e sono stato a Verona da Barbieri (al ristorante Arquade, nel Relais Villa del Quar, due stelle Michelin, n.d.r.) e per un anno e mezzo circa ho lavorato tra Capalbio e Verona.
Tornato a casa ho avuto la possibilità di tornare al Gambero Rosso e lì sono rimasto otto anni, durante i quali ho fatto di tutto. Al tempo c’erano due ristoranti e ho lavorato in entrambi, poi ho iniziato ad occuparmi del settore dei grandi eventi organizzati dal Gambero e ho fatto esperienze veramente di tutti i tipi: grandi manifestazioni con chef famosi, eventi privati, produzioni per il web, shooting fotografici per le pubblicità. Era una realtà molto bella, un’esperienza che mi ha consentito, pur rimanendo a Roma, di lavorare con grandi chef, italiani e non, di vederli all’opera molte volte, una cosa non facile da fare rimanendo nella propria città.
Dato che negli ultimi anni al Gambero mi stavo occupando praticamente solo di eventi, ho dato vita, con un socio, ad una mia attività di catering, l’ho fatto più o meno due anni, poi abbiamo avuto la necessità di trovare un laboratorio nostro e ci siamo messi in cerca del posto adatto. Ci hanno proposto un locale a Ponte Milvio che, però, era un po’ sprecato solo come laboratorio, un bel locale con le vetrine su strada e uno spazio esterno per mettere i tavoli. Io al tempo non avrei mai voluto aprire un ristorante, ero molto restio, perché rispetto al catering sarebbe stato molto più impegnativo. Ma vista l’occasione che si era presentata abbiamo deciso di provare e, così, nel 2012, è nata Lo’steria.
La cucina: perché?
La base di tutto è che mi piace mangiare, mi piace bere, mi piacciono le cose buone. È sempre stato qualcosa che mi attraeva, anche da bambino, mia madre è una buona cuoca, ha sempre cucinato e le prime cose ovviamente me l’ha insegnate lei. La cucina è una passione che ho sempre covato, ma, onestamente, non avevo mai pensato di farne un lavoro. Sono soddisfatto di aver finito l’università, che in realtà mi è stata comunque utile, anche se in un settore completamente opposto, mi ha permesso di relazionarmi con persone diverse, di essere in grado di confrontarmi con clienti di tutti i tipi. Ma crescendo e avvicinandomi al mondo del cibo in maniera più professionale ho capito che la cucina mi avrebbe reso più felice e oggi sono contento, è stata la scelta giusta. Mi piace stare in cucina, non mi pesa, ovvio, come tutti i lavori, ad un certo punto diventa una routine, ci sono degli aspetti negativi, ma il mio lavoro mi piace, ancora oggi.
Un ricordo di cucina di quando eri piccolo
Ne ho tanti. Come ti dicevo mia madre è una buona cuoca, sicuramente quando ero piccolo c’era meno attenzione rispetto a quello che si mangiava, era una cucina, che ricorderai anche tu, degli anni ’80: un po’ pasticciata, con queste ricette, che ho ancora in mente, di paste improbabili con panne e robe strane che, però, bisogna dire, al tempo facevano il loro dovere, erano buone. Sono stato fortunato perché fin da piccolo ho imparato a capire la differenza tra una cosa buona e una meno. Ovviamente il palato con il tempo si affina, l’esperienza in questo lavoro ti da’ la possibilità di assaggiare molte cose, e, in questo, il mio percorso professionale è stato privilegiato: grazie al lavoro al Gambero Rosso è come se avessi mangiato in tutti gli stellati d’Italia, un elemento molto importante nella formazione del mio gusto.
Come mai hai scelto la cucina tradizionale romana?
Avendo vissuto l’esperienza del ristorante stellato avevo capito che non era un tipo di vita che mi sarebbe piaciuto fare. Il lavoro del cuoco, in generale, ti sottopone ad uno stress importante: il momento del servizio, quando c’è tanta gente, ti mette sotto pressione, devi affidarti ad altre persone che lavorano con te, devi gestire le problematiche del personale. Nello stellato tutto questo è moltiplicato per mille, c’è una pressione folle, oltre alla gestione della cucina c’è anche la paura, l’ansia da prestazione riguardo gli ispettori, le guide, i giornali e tutto quello che ruota intorno al mondo della gastronomia, che diventa quasi una malattia, ci sono ristoranti che lavorano solo per quello. A me piace avere un locale in cui la gente venga e si rilassi, in cui io stesso riesca a trasmettere questa atmosfera, se fossi in tensione tutto il tempo non credo sarei in grado di mettere le persone a proprio agio. Volevo un ristorante che si avvicinasse a quelli in cui mi piaceva andare con gli amici, un posto con un’atmosfera conviviale e non ti nascondo un po’ di orgoglio per aver deciso, in un periodo in cui la maggior parte dei cuochi della mia generazione si dedicava alla cucina moderna, di portare avanti un discorso di tradizione fatta bene, e fatta da un cuoco giovane, che secondo me mancava. Negli ultimi due, tre anni a Roma stanno aprendo vari ristoranti di questo tipo, ma quando abbiamo aperto noi non era così. Mi piaceva proprio l’idea di un posto in cui fare le ricette di una volta e immagino Lo’steria sempre così, come è adesso, anche tra tanti anni, magari con qualche piccolo cambiamento, ma immutato nella sostanza: un luogo in cui mangiare un piatto della tradizione, senza alcuna rivisitazione, cucinato bene.
E le ricette? Dove le hai prese?
Alcune sono quelle di casa, che faceva mia mamma, qualcuna addirittura mia nonna, ma, ad esempio, mia madre l’amatriciana l’ha sempre fatta in modo un po’ anni ’70, con il vino, con la cipolla, la mia è diversa (e di amatriciana Luca se ne intende visto che La Repubblica, con cui concordo in pieno, ha inserito la sua tra le migliori di Roma, n.d.r.). Quindi sulla maggior parte ci abbiamo lavorato, ragionando sui prodotti, ricercando le ricette originali e cercando di riprodurle nella maniera più fedele possibile. Per me è fondamentale la ricerca degli ingredienti. Quando si fanno ricette piuttosto semplici non si ha molto modo di lavorarci sopra tecnicamente, rendendo buono un ingrediente medio, e inoltre facciamo piatti che a Roma fanno tutti, quindi per riuscire a distinguersi è necessario proporre qualcosa che sia superiore e l’unica strada percorribile è quella della qualità, che vuol dire ingredienti buoni. Una delle componenti principali del mio lavoro come cuoco, un aspetto a cui mi dedico molto, è proprio la ricerca delle materie prime.
C’è mai stato un momento, da quando hai un’attività tua, in cui avresti voluto dire basta, mollare tutto?
Mollare tutto no, mai. Certo, il momento del Covid è stato molto particolare. Quando ho deciso di aprire un’osteria romana mi immaginavo qualcosa di solido, la gente mangia l’amatriciana oggi e la mangerà tra vent’anni, il mio ragionamento era un po’ “se lo fai fatto bene nun t’ammazza nessuno!”. Mai avrei potuto immaginare una situazione del genere, una pandemia globale, il ristorante chiuso che non può aprire, quello che tutti abbiamo passato è stata una cosa fuori dal mondo, inaspettata, e chiaramente mi ha fatto fare dei pensieri che mai avrei immaginato di avere, non di mollare o cambiare settore, ma magari ragionare su delle alternative. Ora da quel punto di vista la situazione sembra migliorata, ma ci sono nuove sfide: la crisi energetica, il caro bollette, quella di luglio-agosto è quattro volte quella dello stesso periodo dell’anno scorso. Diciamo che nell’attività di un ristorante la componente energia non ha un’incidenza altissima sui costi, rispetto magari ad altri settori, ma di riflesso sono aumentate tutte le materie prime e per forza qualcosa andrà fatto, ne stiamo parlando proprio in questi giorni, ma anche un eventuale ritocco ai prezzi andrà fatto nella maniera più soft possibile, perché Lo’steria si caratterizza per essere un ristorante popolare.
La soddisfazione più grande da quando hai aperto il ristorante?
Le soddisfazioni sono tante, ce ne sono ogni giorno. La più grande è sicuramente vedere il ristorante pieno perché, al di là dell’aspetto economico, è bello vedere qualcosa che hai creato che sta funzionando bene. Ci sono anche le soddisfazioni “da addetti ai lavori”, essere inseriti nelle guide, i premi, sono gratificanti, ma, ancora di più, quello che a me fa piacere è vedere le persone che tornano, certi clienti che vengono tre, quattro volte a settimana, che continuano negli anni a mangiare da noi, e questo è un attestato importante che si sta mantenendo un livello di qualità costante.
La letteratura e la televisione dell’ultimo decennio ci hanno presentato un’immagine di cuoco come di un romantico fuorilegge, della brigata di cucina come di una banda di pirati: quanto c’è di vero in questo?
Dipende dal ristorante. In certi contesti è un po’ così. Sicuramente è una vita sacrificata: gli orari sono lunghi, è un lavoro fisicamente impegnativo, sempre in piedi, alzi pesi, c’è fuoco, calore, acqua bollente, lame, è un mestiere faticoso e particolare. Non è un lavoro per tutti. Quando vengono dei ragazzi, che vorrebbero fare i cuochi, a chiedermi consigli rispondo sempre di passare almeno un mese in una cucina a guardare, per capire bene di che si tratta. L’immagine del cuoco che ci viene proposta è una, è come guardare la Serie A e pensare che tutto il calcio sia Serie A, invece ci sono anche quelli che giocano nel campo di terra, le realtà sono tante e diverse.
Rispetto ad altri colleghi tu sei sempre molto generoso nel condividere il tuo sapere, come mai non sempre è così?
Questa forse è una caratteristica che si vede di più nei cuochi delle generazioni precedenti, oggi non ha molto senso non condividere una ricetta, se bastasse avere le istruzioni per riprodurre un piatto uguale a quello di un professionista sarebbero tutti chef. C’è una componente di manualità che è fondamentale e non si può replicare. È una cosa che non ho mai capito, io non sono geloso neanche dei colleghi, condivido tutto tranquillamente, anzi se mi chiedono qualcosa mi fa piacere. Anche i clienti spesso mi chiedono le ricette e le do senza problemi, le ho addirittura scritte sui muri del ristorante.
Hai due figlie, ti sei impegnato per trasmettere loro l’amore per il cibo?
Non è stato molto difficile, forse erano anche un po’ predisposte geneticamente, insomma il mangiare in casa ci piace “abbastanza”. Sono anche un po’ cresciute al ristorante e da lì qualcosa per forza è arrivato. Mi fa piacere che riescano ad apprezzare una parte così bella della vita: saper mangiare bene, conoscere le cose buone, è importante. Ognuna chiaramente ha la sua predisposizione: la più piccola è più avventurosa, più propensa alle novità, mentre la maggiore preferisce andare sul sicuro, è più abitudinaria. Io cerco di trasmettere loro la mia passione, se poi mi vuoi chiedere se desidererei per loro un futuro in cucina (è proprio quello che stavo per chiedere, n.d.r.) probabilmente ti risponderei di no. Egoisticamente mi piacerebbe, ma non le spingerei mai a farlo, se poi ad una di loro venisse un forte desiderio, una passione vera, magari la prenderei in cucina con me, ma onestamente ti dico no.
Quando non sei tu a cucinare - quasi mai insomma - cosa ti piace mangiare?
Io mangio veramente tutto. Ma forse quello che mi piace di più quando magari mangio fuori è sicuramente il pesce. Se dovessi scegliere il mio ultimo pasto probabilmente sarebbero ostriche.
Il libro di cucina di Luca Ogliotti?
Sicuramente un libro su quello che facciamo, tutto dedicato alle ricette romane tradizionali.
Domanda “hot”: amatriciana o carbonara?
Carbonara.
Non potevo lasciarmi scappare l’occasione di chiedere a Luca (diciamo chiedere, anche se sarebbe più corretto “obbligare”) di condividere con Sfoglia qualche dritta gastronomica, quindi, per una volta, faremo un’eccezione parlando un po’ meno di libri e un po’ più di cucina. Gli ho chiesto di indicarci tre piatti imperdibili della tradizione romana, abbinandoli anche ad un vino, proveniente da cantine laziali, che più si adatti ad esaltarne i sapori. Ed essendo estremamente generoso con il suo sapere, come avrete letto, ha deciso di regalarci anche la sua ricetta delle “Ciambelline al vino” che - fidatevi - sono qualcosa di paradisiaco: croccantine, non troppo dolci, ornate da granelli di zucchero. Il modo perfetto per concludere un pasto, e questa newsletter.
3 consigli di Luca Ogliotti: piatti romani e vino
Trippa
da bere: Cesanese di Olevano Romano, cantina Damiano Ciolli
Pizza bianca romana con mortadella
da bere: Litrozzo Rosato, azienda agricola Le Coste
Petto di vitello alla fornara
da bere: Rosso Arcaico, Andrea Occhipinti
Dentro il menù:
Ciambelline al vino
350g farina 00
125g semolino
75g semola
95g olio evo
150g zucchero
150g vino rosso
Procedimento:
Preriscaldate il forno a 140°C.
Mettete tutti gli ingredienti in una planetaria e lavorate l’impasto finché non risulta omogeneo.
Stendete l’impasto, ricavate delle striscette e formate le ciambelline (Luca le prepara molto piccole, poco più di una moneta, se vi piacciono così, mi raccomando, occhio al forno!).
Adagiate le ciambelline su una teglia da biscotti, o sulla leccarda del forno, foderata con carta da forno, poi spolveratele di zucchero prima di infornarle.
Cuocete in forno a 140°C per circa 30 minuti.
Voglio ringraziarvi di cuore per essere arrivati fin qui ed aver letto anche questo numero di Sfoglia, voglio ringraziarvi per esservi iscritti, per avermi detto che vi piace questo piccolo progetto e vi invito, se volete, a scrivermi, rispondendo a questa mail o su Instagram, per dirmi pensieri, impressioni, richieste o anche solo per un ciao, io sono sempre felicissima di parlare di libri, di cucina, di storie.
Vi lascio con una, spero gradita, sorpresa: il prossimo numero arriverà molto presto, prima di quanto crediate, e sarà un numero speciale, prima di tutto perché non leggerete solo le mie parole e poi perché l’argomento sarà attualissimo e televisivo. Avete già capito? Alla prossima!
ogni volta le tue newsletter sono piene di spunti! belle belle!